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Sapere e sapere insegnare: sul PAS per i dottori di ricerca

Il Ministero e i sindacati hanno appena chiuso un accordo sul sistema di reclutamento dei docenti di scuola secondaria. Oltre al concorso ordinario, dovrebbe essere attivato il PAS (percorso abilitante speciale) in cui i dottori di ricerca sono equiparati a docenti di ruolo e docenti con tre anni di servizio e possono dunque abilitarsi (con un corso e un esame finale) e accedere così alla seconda fascia.

La notizia è stata accolta con un certo giubilo. Diciamo una cosa, perché sia chiaro fin da subito per quale osso rosicchiato stiamo gioendo: il PAS costa circa tremila euro e non garantisce un posto fisso. Per quello occorre comunque fare il concorso. Potremmo pensare che, al più, è un modo per essere abilitati anche se non si raggiunge un punteggio sufficiente al concorso. In realtà no, perché con tutta probabilità le due opzioni si escluderanno a vicenda: o il PAS o il concorso. La stessa ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia) dice che non si tratta di una vittoria (qua trovate l’intera analisi).

In sintesi: pagare migliaia di euro per entrare in II fascia assieme a decine di migliaia di persone, mettendo il merito in secondo piano rispetto alle disponibilità economiche degli aspiranti insegnanti, e poi dover comunque affrontare un concorso non ci sembra una soluzione efficace al problema del reclutamento dei docenti della scuola secondaria, né per i dottori di ricerca né per le altre categorie di precari coinvolte. 

Potrei chiudere qui, dire che si tratta di una presa in giro per quel 90,5 % di iperformati che non saranno mai assunti a tempo indeterminato nel mondo dell’università (VII Indagine ADI), andare avanti a studiare per un concorso che forse prima o poi uscirà e nel frattempo piangere su una tesi che probabilmente non vedrà mai la luce. 

Ma quest’ennesima beffa mi dà il modo di affrontare alcuni punti fondamentali, almeno per quello che ho pensato in questi anni di sogni di insegnamento e frustrazioni dottorali. E l’articolo di Claudio Giunta su Internazionale mi conferma l’importanza di questa operazione.

Innanzitutto il pezzo di Giunta si intitola “Una buona notizia dalla scuola”, perciò io mi aspetto di leggere che finalmente è in calo l’abbandono scolastico nel nostro Paese (no, naturalmente: è aumentato), che finalmente sono stati stanziati un sacco di fondi per la messa in sicurezza degli edifici, che ci sono i soldi per il sostegno a tutti quelli che ne hanno bisogno per tutto il tempo in cui ne hanno bisogno. No. Il pezzo di Giunta parla proprio dei PAS, la grande conquista dei dottori di ricerca italiani: «Conosci una disciplina? La sai insegnare? Ecco la tua cattedra a scuola. Buon lavoro». Perché dunque, secondo Giunta, sarebbe una buona notizia? Per quattro motivi principali, che ora discuterò uno per uno, e rispetto a quali possono esserci anche motivi di condivisione (alla fine, anche Giunta ammette che il PAS in sé è una porcheria per cui paghi e ti abiliti).

C’è però una premessa fondamentale da fare: il pensiero di Giunta sull’insegnamento muove da un principio molto semplice, appena accennato in questo passo: «Con che faccia, in effetti, si può dire a persone che insegnano da anni a matricole universitarie diciannovenni che […] non possono insegnare a diciottenni del liceo […]?»*.

Lo stesso principio, in altri interventi dell’italianista, è manifestato più chiaramente:

Tra i dottori di ricerca ci sono persone che hanno passato anni a glossare Nonno di Panopoli ma non conoscono neppure i rudimenti della pedagogia? Sicuro anche questo. Ma sono tutte persone che conoscono bene le discipline che insegnano, e che con un po’ d’esperienza, qualche buona conversazione con dei pedagogisti intelligenti, all’università (o con colleghi più anziani, nella scuola) e un po’ di letture impareranno anche ad essere dei buoni insegnanti. Per essere ancora più chiari: sono persone abbastanza mature da non aver bisogno, dopo ventun anni di studi, di un altro anno di lezione sul brainstorming e il cooperative learning, così come non hanno bisogno di altre lezioni (mie, per ipotesi) di letteratura italiana, o di storia, o di matematica (se ne hanno bisogno vuol dire che non dovevano essere ammesse al dottorato, e che l’errore è stato fatto prima). Buone letture integrative, specie su questioni di didattica che non hanno approfondito a scuola, buone conversazioni con specialisti di pedagogia, tirocinio semestrale in classe: e basta. 

In sintesi, secondo Giunta per essere bravi insegnanti non è necessario saperne di pedagogia o di metodologie didattiche (basta farsele raccontare da uno bravo); tutto l’umanesimo che serve per interagire con un quattordicenne, se mai servisse, si può trovare nel Petrarca. Su questo le mie posizioni e quelle di Giunta sono inconciliabili. Tutt’al più possiamo concordare sul fatto che la pedagogia che in questi anni è stata inclusa nella formazione degli insegnanti (i noti 24 crediti) non è risultata molto utile né è stata presentata in modo convincente alla maggior parte dei laureati.

Per sintetizzare il discorso di Giunta, il dottorato fino ad ora ha dato principalmente due esiti: nessuna prospettiva o l’emigrazione. Questo in realtà non lo dice Giunta, lo dicono i dati. Lui ne trae due conclusioni: una, assolutamente condivisibile, è che questo è inaccettabile, l’altra è che i dottori di ricerca dovrebbero avere accesso quasi diretto all’abilitazione, cioè diritto a partecipare ai PAS.

I motivi per cui, secondo Giunta, è bene che i dottori di ricerca siano facilitati all’accesso alla cattedra:

1) così facendo il dottorato permette di accedere sì alla carriera universitaria o all’espatrio, ma anche alla scuola.

Fino ad ora questo è rimasto alla libera scelta di ognuno. Per molti, soprattutto quelli che conosciamo io e Giunta (cioè i dottori di cose umanistiche), il dottorato – oltre che un momento bellissimo in cui imparare tante cose e farsi sfruttare ­– è un ammortizzatore sociale, un titolo di cui fregiarsi con le amiche della nonna o al più una specie di death match per chi davvero ambisce alla carriera universitaria, che comunque sono pochi. La maggior parte sa già che alla fine, vuoi perché nauseata dalle violenze dell’Accademia e bisognosa di sana caciara adolescenziale, vuoi perché ha bisogno di avere uno stipendio, finirà a insegnare.

2) Alla scuola fanno bene docenti in grado di attivare percorsi di conoscenza diversi, non convenzionali, non omologati, che hanno percorso in lungo e in largo le praterie della conoscenza letteraria.

Tutto vero, tutto perfettamente condivisibile, ma Giunta forse non ha mai sentito i liceali chiedersi che senso abbia studiare Aretino se non quello di lenire la frustrazione della prof di italiano. E con questo non sto dicendo che non esista un modo e un tempo per Aretino al liceo, dico solo che non è per tutti i contesti e che per fare certe valutazioni non basta essere consapevole di quanto io sia esperta di Aretino (povero, non mi fraintendete, io lo adoro Aretino), ma devo avere la sensibilità per capire chi ho davanti e cosa può essere significativo perché capiscano alcune cose importanti della letteratura. Come la acquisto questa sensibilità? Sicuramente non con i 24 CFU. Forse ce l’ho un po’ innata, forse però posso leggere, che ne so, Luperini che parla di didattica della letteratura.

3) Può accadere che si scopra tardi la vocazione.

E allora? A quanti succede? Perché per i dottorandi (che oltretutto hanno un carico di frustrazione accumulata non indifferente) dovrebbe essere diverso? Sorvolando sul fatto che di fondo io – maliziosa me – ci leggo sempre un certo disagio paternalista che l’Accademia riversa su quelli che non ce la fanno, ci sono altri mezzi per valorizzare il fatto che per tre anni invece che fare supplenze e ubriacarmi con quei due spicci ho provato a studiare e fare ricerca: fare sì che il dottorato valga molti punti al concorso, per esempio.

4) La scuola incoraggia i burocrati e scoraggia gli intellettuali.

E invece l’Accademia li premia mandandoli a fare gli insegnanti. Facciamo che per questa risposta rimando al punto 2, dal momento che le mostruosità burocratiche della scuola le conosciamo molto bene e, ahinoi, non si risolvono con gli intellettuali ma con le riforme e con i soldi.

Nonostante non sia brava a nascondere la mia vena polemica, il mio bersaglio non è e non vuole essere l’intervento di Giunta in sé, ma tutto un pensiero che lo sostiene e lo legittima.

Innanzitutto c’è una questione legislativa di fondo. Cioè, almeno da quanto ci è noto, il dottorato ha come scopo di fornire «le competenze necessarie per esercitare, presso università, enti pubblici o soggetti privati, attività di ricerca di alta qualificazione» (Decreto Ministeriale 30 aprile 1999, n. 224). L’obiettivo, dunque, sarebbe quello di formare ricercatori. E allora poi non mi si venisse a dire che l’insegnamento non è un ripiego, perché se io uso il phon che è progettato per asciugare i capelli per le mutande che non si asciugano in tempo e faccio finta che non sia una forzatura sto mentendo; con inventiva ma sto mentendo.

La seconda questione è però quella davvero centrale, è chiaramente collegata alla prima ed è quella su cui tutti potremmo potenzialmente litigare se solo la approfondissimo: riguarda cioè l’equilibrio tra conoscenza della materia e riflessione pedagogica nelle scuole di ogni ordine e grado. Personalmente ho visto professori preparatissimi licenziare studenti altrettanto preparati dopo averli interrogati per anni impalati alla porta manco durante un’esecuzione. Ma ho visto anche che questa in cui i ragazzi di oggi vivono è una società stressante, con continue richieste performative, un mondo in cui aumentano i consumi di psicofarmaci tra i più giovani, le consulenze psicologiche, i disturbi d’ansia. E se anche voi direte che il professore non è uno psicologo e non può intervenire (e non è vero, perché creare serenità nell’ambiente scolastico è una fonte fondamentale di prevenzione del disagio), c’è sempre il fatto che la materia dura, cruda, spiattellata o declamata che sia, non è digeribile da tutti così com’è. Se anche allora il nostro unico scopo fosse travasare contenuti, comunque sarebbe bene imparare come essere bravi a farlo. E per farlo non bastano tre anni di dottorato.

* Secondo il DM 8 febbraio 2013 n. 45, «I dottorandi, quale parte integrante del progetto formativo, possono svolgere, previo nulla osta del collegio dei docenti e senza che ciò comporti alcun incremento della borsa di studio, attività di tutorato degli studenti dei corsi di laurea e di laurea magistrale nonché, comunque entro il limite massimo di quaranta ore in ciascun anno accademico, attività di didattica integrativa». Quaranta ore, praticamente due settimane di un qualsiasi supplente, a fronte di tre anni di barricate in classe.

Quando il bullismo è contro i prof

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Anche oggi i giornali danno notizia di un professore picchiato a scuola, secondo un copione a cui ormai stiamo gravemente facendo l’abitudine: studente rimproverato, sgridato o che ha preso un brutto voto, genitore che picchia il professore. Questa volta il genitore si è pentito, la ragazza ha detto una bugia; insomma, ci sono come sempre circostanze da valutare che però, ora, non ci interessano: ciò che interessa è che questi episodi, in cui gli insegnanti vengono picchiati da genitori o da studenti, si ripetono con una frequenza allarmante. Solo negli ultimi giorni, un professore è stato picchiato in classe da uno studente in provincia di Verona e una professoressa è stata legata, picchiata e ripresa con un cellulare ad Alessandria.

Si rischia troppo spesso di cadere nella tentazione, soprattutto quando a comportarsi male sono gli studenti, del “O tempora o mores!“, del luogo comune per cui oggi i giovani sarebbero superficiali e non avrebbero più alcun rispetto per gli adulti. Niente di più sbagliato: è sempre stato così. Il ruolo della scuola e degli insegnanti è proprio quello di agire sui mores, sui comportamenti; per farlo, però, è necessario avere le spalle coperte, dal punto di vista politico, e un ruolo riconosciuto all’interno della comunità. Oggi mancano entrambi gli elementi.

Stiamo raccogliendo i frutti di una svalutazione dell’istituzione scolastica operata da tutte le forze politiche che si sono alternate al governo negli ultimi anni: una scuola che per essere considerata “valida” e “utile” è stata affiancata al mondo del lavoro, anche esplicitamente con l’alternanza scuola-lavoro, come se il suo ruolo da sé non bastasse, come se avesse senso solo in un’ottica di “preparazione di lavoratori”. Si capisce bene come, al di là della variabile capacità individuale di gestione di una classe e dei rapporti interpersonali con i genitori, in generale il ruolo del docente venga indebolito, quando alla scuola viene negata una propria ragione d’essere indipendente dal contesto lavorativo.

Non solo. La scuola è stata aziendalizzata, molti professori sono precari e il loro futuro dipende dalle decisioni del dirigente scolastico, ormai diventato capo: un professore precario, magari un supplente, che non sa nemmeno dove starà l’anno successivo, quale forza può avere di fronte a critiche di studenti e genitori? Come può agire, imporsi sui comportamenti, se rischia di essere il primo a saltare nel caso di contrasti? Un professore così debole non può operare in maniera corretta in un contesto critico come quello dell’istruzione degli adolescenti.

La frequenza di questi episodi è preoccupante, ma ancor più preoccupante è l’assoluto silenzio politico su questi continui episodi che evidenziano quanto sia stato indebolito il ruolo dell’insegnante. La classe politica di un sistema democratico deve assumersi l’impegno di ridare forza all’istituzione scolastica in sé, come fulcro e pietra miliare della formazione dei cittadini: non c’è altra soluzione.

 

Smartphone usato per studiare

L’uso degli smartphone in classe

Recentemente, la ministra Valeria Fedeli si è espressa favorevolmente sull’uso degli smartphone a fini didattici e ha istituito una commissione che dovrà dettare delle linee guida sul loro utilizzo in classe. Chissà come verranno accolte queste indicazioni da tutti quelli che, invece, credono che gli smartphone debbano essere vietati, vedendoli come pericolosi elementi di disturbo. In realtà, le ragioni che supportano entrambe le posizioni sono grosso modo corrette: gli smartphone sono utili, ma distraggono.

Nei 5 minuti che ho impiegato per iniziare a scrivere questo post mi sono arrivate due notifiche di Whatsapp, tre di Facebook e una di Messenger. Lo smartphone, i social network e i numerosi mezzi con cui ci relazioniamo ai nostri amici e colleghi sono indubbiamente un pericoloso disturbo, soprattutto quando dobbiamo portare a termine compiti (imposti o volontari) che, al contrario, richiedono concentrazione e quiete. E sono un elemento di disturbo che riguarda tutte le fasce d’età, anche quelle dei docenti e degli adulti in generale.

Smartphone e scuola

D’altra parte, ci vorrebbe davvero molta immaginazione per affermare che uno strumento portatile potente quanto un pc, connesso a internet, non possa servire come strumento didattico. L’unico dubbio è il come, visto che non siamo ancora riusciti a integrare l’uso del computer nella didattica tradizionale e non si vede per quale motivo dovremmo riuscirci in tempi brevi con gli smartphone.

“Allora intanto vietiamoli”, si potrebbe dire. E all’estero, in molte scuole, l’uso degli smartphone è vietato o rigidamente disciplinato, come riassume Alberto Magnani sul Sole 24 ore, anche con buoni risultati nel miglioramento delle valutazioni (ma è un parametro di dubbio valore). Inoltre, come scrive qualcuno, è proprio la scuola ad essere rimasta come ultimo luogo deputato a imporre delle regole e dei limiti invalicabili nell’educazione di un ragazzo.

Tuttavia, la storia ci insegna che vietare un uso condiviso da tutti (che, naturalmente, non danneggi il prossimo) difficilmente contribuisce a porre un argine a quell’uso. Non solo, nel caso degli smartphone, vietarne l’uso a scuola crea un ambiente asettico, privo della principale fonte di distrazione contemporanea, con cui, al contrario, sarebbe bene confrontarsi sotto la vigilanza dei docenti proprio in un contesto in cui è richiesta concentrazione. Molti studenti che abbiamo seguito e seguiamo, pur volendo studiare, non si ritengono in grado di gestire il tempo e cadono inevitabilmente vittime del canto delle sirene digitali.

Cosa deve insegnare la scuola, se non soprattutto a farcela da soli? Proprio nella scuola, il luogo condiviso da tutti i giovani che richiede lo svolgimento di attività complesse non abituali nella quotidianità di un ragazzo, si dovrebbe insegnare a gestire (da soli e con gli altri) la propria energia e il proprio tempo, a indirizzare la concentrazione, a perseguire con costanza interessi che non siano solamente il (sacrosanto, nelle giuste dosi) cazzeggio.

Prima ancora che a usare gli smartphone come strumenti didattici, bisognerebbe insegnare a conviverci, senza pensare che siano una maledizione lanciata dal cielo, che la loro introduzione nelle nostre vite abbia peggiorato la società o, peggio, fare finta che non esistano.

Smartphone in classe