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Quali studenti? Quale metodo?

È un’afosa giornata di giugno. In questo periodo si fanno lezioni in vista degli esami di recupero di luglio e settembre. In pratica, per chi è del mestiere, il mese in cui si incontrano tanti studenti nuovi, sconosciuti; il che è naturalmente positivo, perché vuol dire che gli studenti che hai seguito durante l’anno sono andati bene. Ma incontrare uno studente nuovo è un po’ come un primo appuntamento: gli piacerò? mi piacerà? scatterà quel minimo di chimica per far andar avanti la cosa? o non ci vedremo più dopo la prima lezione?

Per un tipo di insegnamento che fa dell’empatia e della relazione i principali strumenti di lavoro (magari fossero solo quelli), una prima lezione è sempre preoccupante. Non solo. Già mi sono stati presentati gli studenti: un ragazzo discalculico che sta al terzo anno, ha il debito in matematica, non ha mai fatto matematica perché gliel’hanno sempre lasciata passare; una ragazza del terzo anno di un tecnico, con disturbi specifici dell’apprendimento, ma soprattutto silenziosissima, da non darti modo di capire se stia seguendo o meno; un ragazzo del primo anno dell’agrario, con un disturbo dell’attenzione, so che ha una qualche disabilità ma i genitori non mi dicono cosa.

Vabbè, è il tuo lavoro, direte voi. Vero, ma troppo spesso ci si scorda che anche l’insegnante deve stare bene; e a volte non basta, se di fronte c’è un muro. Poi fa caldo, ho tanto lavoro lasciato indietro per i mesi di lezione intensi, sono “stanco” di quella stanchezza che ti viene d’estate con mezzo cervello che un po’ si sente in vacanza (antichi ricordi degli anni scolastici, come graffiti sulle pareti del cranio). Riuscirò a fare quello che devo fare nel modo in cui devo farlo? O farò il minimo sindacale senza trovare con lo studente quel canale comunicativo privilegiato che in genere caratterizza il nostro insegnamento? Si preannuncia una giornata difficile. 

Diego. Mi accoglie un pischello muscolosetto, rasato, al citofono sembrava scocciato (in realtà è il tono di qualsiasi adolescente al citofono, voce strascicata annoiata, non si capisce niente e sembra che farebbe entrare chiunque perché è troppo sbatti non far entrare qualcuno), in realtà è gentile e dopo una breve chiacchiera ci mettiamo a lavorare. Che dire? Questo ragazzo non sa davvero nulla di matematica. Ripartiamo da semplice calcolo algebrico, lo guido nella risoluzione di un’equazione traducendogliela contemporaneamente in italiano (uno dei grandi problemi del calcolo algebrico è che i ragazzi non sanno cosa stanno facendo: anche i più bravi sanno svolgere tutto il procedimento alla perfezione, ma non sanno esattamente a cosa serve l’incognita, cosa *vuol dire* un’equazione), nonostante sia discalculico lo metto un po’ alla prova con semplici moltiplicazioni: lui risponde senza azzeccare mai (moltiplicazioni del tipo 2 x 3, 4 x 5, ecc. eh), allora cambio strategia e lo tranquillizzo sull’uso della calcolatrice (sono un mulo testardo: un po’ di calcolo a mente lo faccio provare sempre). Mi ritrovo in una situazione mai capitata: quando possono usare la calcolatrice, TUTTI i ragazzi usano la calcolatrice, santa salvatrice dall’ansia della risposta matematica corretta, anche per calcoli molto semplici. Lui invece continua a provare a rispondere (senza alcuna ratio, velocemente, senza riflettere), mentre io gli dico di usare la calcolatrice; tuttavia lo assecondo un po’ per premiare la volontà. “Quindi, qua abbiamo 2 x 3, quanto fa?”, “4”, “No”, “8”, “No”, “16… 40!” “No scusa ma perché non usi la calcolatrice?”, “Mi piace sparare numeri a caso”. Ed effettivamente sembrava provarci enorme gusto, nello sparare numeri a caso: mai vista una persona urlare con tanta convinzione dei numeri “4! 8! 16! 40!”, come oggetti misteriosi, rituali magici, amuleti di cui non si conosce l’utilizzo ma che la società venera e adora. I numeri. In realtà, scomponendo il calcolo e mostrando altri percorsi Diego non aveva problemi: “Quindi, 17 + 9 fa…”, “Seee!”, “Scusa eh, 20 + 7?”, “27”, “E quindi 19 + 7?”, “26”. Fatto. A Diego non manca IL metodo, a Diego manca QUEL metodo.

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Francesca. La ragazza silenziosa. Già l’avevo vista, già ci avevo fatto lezione. Lì per lì mi stava antipatica. “Eh? Ma come? Sei l’insegnante o no? Sono legittime queste valutazioni?”. Eh oh, che vi devo dire, mi stava antipatica. Non che la odiassi, ma ringraziavo di non essere il suo insegnante. Durante le lezioni la vedevo lì, muta, silenziosa. Il mio insegnamento si basa in gran parte sul botta e risposta, pim pum pam, ho bisogno di gente reattiva (io, ho bisogno: trova l’errore se sei un insegnante), non ci faccio nulla con una ragazza silenziosa. Attenzione: silenziosa, non apatica. Fa sempre i sorrisini di chi è consapevole di star rimanendo zitto, quando lo stuzzichi per parlare. Comunque, Federica ha il debito in storia e biologia. Facciamo una mezz’ora di biologia perché sta indietro sul programma. Sta al turistico, è una biologia molto semplice, posso aiutarla. Partiamo dall’atomo, rivediamo l’atomo: la faccio schematizzare, ha una bella scrittura ed è ordinata. Non sembra molto interessata, reagisce pochissimo, le faccio ripetere gli schemi che abbiamo fatto e sono costretto a improvvisare dei fill in the gap orali: “Allora, l’atomo è composto da un… e da una… . Perfetto. Il nucleo a sua volta presenta… con carica… e … con carica…” e così via. Sembra non acquisire concetti semplicissimi e vi confesso che è davvero difficile capire se ha capito o no, se sta seguendo o sta solo compiendo azioni meccaniche (sì, amici insegnanti, se c’è una cosa in cui sono bravi i giovani è far finta di star seguendo, semplicemente replicando e simulando le azioni meccaniche richieste). Io continuo a stuzzicarla, mi inerpico in esempi quotidiani, la prendo in giro che non sa farsi la pasta e che sapersi fare la pasta è fondamentale per capire la chimica, lei sorride ma è molto poco reattiva verbalmente. Parliamo dell’atomo di carbonio, che può instaurare 4 legami covalenti, perché ha sugli orbitali esterni solo 4 elettroni (in realtà la situazione è un po’ più complessa ma non è nel programma) mentre dovrebbe averne 8. “Perché 8?”. Mi giro dalla lavagna meravigliato, ho sentito qualcosa senza che ci fosse un mio stimolo diretto. La guardo perplesso, come si guarda un gatto che ha fatto un verso strano, non suo. “Come scusa?” “Perché deve avere 8 elettroni?”. Miseriaccia, sei stata zitta tutto il tempo e ora dobbiamo fare una lezione di fisica quantistica? Sono felice di spiegarle perché sono 8, per quel poco che le posso spiegare, lei sembra aver capito. Sono contento. Mi ha fatto una domanda. Qualsiasi domanda faccia uno studente è una vittoria dell’insegnante. Sempre e comunque. Anche se siamo di fronte a una maestra della simulazione di azioni meccaniche, e ti rimane il dubbio che quella domanda fosse un’altra delle sue strategie per passare indenne la lezione, senza troppi sbattimenti. Anche fosse così, simulare interesse è una delle tante abilità che tanto, prima o poi, vanno imparate.

Eugenio. Primo anno dell’agrario. Il ragazzo con disabilità. Che disabilità? Non si sa, la mamma non l’ha detto, anzi, la mamma non aveva nemmeno detto che aveva una qualche disabilità, solo aiuto per i compiti. Non sono ancora in confidenza per approfondire. Lo conosco, non riesco a capire se è autistico o se ha la sindrome di Asperger o chissà cos’altro. Sembra problematico in ogni caso (come se non lo fossimo tutti, problematici). Indago, chiacchieriamo, gli chiedo le materie preferite, chimica dice. Ammazza, chimica!, e cosa di chimica? I modelli atomici. Spiegameli. Me li spiega alla perfezione, fino a quello di Bohr, parlando anche di “orbitali”. Fa il primo anno dell’agrario e dovrebbe essere problematico. Facciamo italiano, per l’estate deve fare una sorta di test Invalsi. Ci scontriamo con la schematicità e la fissità della lingua proposta dal test. “Come sostituiresti il verbo dare nella frase “Gli hanno dato l’Oscar?”. Ci sono sia “assegnare” che “attribuire”. Vanno bene tutti e due, dice. Sì, vanno bene tutti e due. Ci ritroviamo nella giungla degli antonimi (i contrari) che il libro e il test ci presentano come “complementari” (quando si escludono: vivo o morto), “graduabili” (quando c’è una scala: dolce, poco dolce, né amaro né dolce, poco amaro ecc.) e “inversi” (quando la presenza di uno implica l’altro: sopra/sotto, marito/moglie). Ma una cosa può essere “molto sopra” rispetto a un’altra, o “poco sotto”, dice lui. È vero, dico. La lingua incasellata in categorie ridicole spesso pensate solo per la lingua scritta mi fa pensare, nella giornata di oggi, che un po’ lo stesso avviene nel rapporto di “insegnamento”. Ogni persona è diversa, IL metodo è un’approssimazione, comoda certa, ma un’approssimazione, e bisogna ricordarselo quando si valuta negativamente l’apprendimento di qualcuno. Il non incontrarsi nel metodo è la norma, non l’eccezione. Chiunque può avere problemi con qualsiasi metodo. Per ogni persona dovrebbe esserci un metodo.

Frontespizio del libro Lingua Latina di Hans Orberg

“Metodo Ørberg” o “tradizionale”? Riflessioni dal convegno GrecoLatinoVivo

In questi anni un “nuovo” metodo didattico per il latino e per il greco antico sta acquistando popolarità e diffusione crescenti anche in Italia. L’aggettivo è tra virgolette perché in realtà il metodo in questione, secondo una tradizione ben attestata da numerosissime fonti, è stato usato nel corso di lunghi secoli; dall’antichità, quando le lingue in questione erano lingue parlate correntemente e apprese come lingue materne, fino alle soglie dell’età contemporanea, con l’affermazione (prima in area germanica, poi nel resto dell’Europa e del mondo) del metodo ora considerato tradizionale e che può essere definito (con una certa approssimazione) grammaticale, deduttivo e traduttivo.

Il cosiddetto metodo naturale, vivo o attivo, cioè quello che può essere definito induttivo e non-traduttivo, è perlopiù noto in Italia col nome di “metodo Ørberg”, dal nome del latinista e linguista danese Hans Henning Ørberg (1920-2010). Nel 1990, rielaborando una sua precedente pubblicazione, Ørberg scrisse e produsse con la casa editrice Domus Latina, da lui fondata, Lingua latina per se illustrata, il libro di testo più usato oggi per seguire questo metodo.

Il manuale di Ørberg, ovviamente, riguarda il latino. Per il greco, il testo principalmente usato dai docenti che scelgono di affidarsi al metodo “vivo” è Athènaze, pubblicato anch’esso nel 1990 e scritto dagli studiosi inglesi Maurice Balme (1925-2012) e Gilbert Lawall (1936), ripubblicato con alcune modifiche nel 2003 e in terza edizione nel 2016, con l’apporto del professor James Morwood (1943), per la Oxford University Press.

Non entrerò ora nell’analisi dettagliata dei due manuali e delle loro traduzioni italiane che presentano modifiche e aggiunte (soprattutto nell’apparato iconografico), né affronterò la discussione generale sul metodo. Le caratteristiche più evidenti dovrebbero essere queste: interazione orale costante (ma non perenne) tra insegnante e studenti svolta nella lingua studiata; tendenza a posticipare la riflessione grammaticale (si badi bene: non eliminare, ma posticipare) limitandola, almeno all’inizio, ai fondamentali (sorvolando su alcuni dati presenti invece in gran copia in tutti gli altri manuali, come le “eccezioni” o “particolarità”, tra cui il caso vocativo); riorganizzazione delle declinazioni (con la collocazione dei cosiddetti casi diretti, cioè il nominativo e l’accusativo, all’inizio); presenza di un ricco apparato iconografico usato, insieme ad altri espedienti, per facilitare la memorizzazione di un ampio bagaglio lessicale che, punto cruciale, deve portare lo studente a evitare l’uso massiccio del vocabolario e a familiarizzare con la lingua studiata.

Traduzione

Affronterò prossimamente, in altri articoli che saranno pubblicati sul blog di Laudes, gli argomenti cui ho accennato. Quello che voglio fare, ora, è approfittare di un evento che si è appena concluso per ragionare sulla sterile contrapposizione in atto tra i docenti che seguono i due metodi. Una contrapposizione spesso aprioristica, fatta di ostentato menefreghismo per le ragioni dell’altro e senza approfondire i singoli argomenti, condotta in nome di un “rispetto della tradizione” o di un “rinnovamento” che sembrano affondare le proprie radici in visioni decisamente ideologiche, piuttosto che in ragionate riflessioni sull’utilità didattica di ciascuna scelta fatta nel rapporto con i propri studenti. Alcuni pregiudizi dei sostenitori del metodo “tradizionale” si annidano nelle parentesi del precedente paragrafo: l’idea che con questo metodo non si faccia studiare la grammatica, per esempio, o l’idea che il docente si trasformi in un marziano che parla SOLO in latino o in greco senza far capire una mazza agli studenti. Ma, come in tutte le contrapposizioni, sono altrettante le strategie retoriche della controparte; ne citerò qualcuna, tra poche righe.

L’evento in questione, il «Primo Seminario Internazionale di GrecoLatinoVivo in Didattica delle Lingue Classiche», si è tenuto a Firenze il 16 e 17 marzo e ha registrato un’affluenza di circa 350 persone provenienti da vari paesi europei (di certo Portogallo, Spagna, Francia e Svezia, da cui provenivano alcuni relatori). Nel corso di circa 15 ore complessive sono stati affrontati vari argomenti, con diversi livelli di approfondimento e oscillazioni nel mio personale interesse: gli interventi più interessanti mi sono apparsi quelli pragmatici, volti a esemplificare la metodologia e a fornire uno stimolante repertorio di espedienti didattico-comunicativi, come quello dello svedese Daniel Petterson, curatore del portale Latinitium, del docente veronese Alessandro Conti (alias Alexander Veronensis) e di Jorge Tárrega, docente all’Università di Valencia. Il fondatore di GrecoLatinoVivo, Giampiero Marchi, ha retto le fila degli interventi, a volte commentandoli, ha introdotto e concluso il convegno, nonché presentato i relatori. Uno dei momenti che attendevo con maggiore interesse, ossia la “messa in scena” di un’intera lezione sull’acquisizione dei pronomi personali che avrebbe dovuto compiere lo stesso Marchi, è saltato. La simulazione non si è svolta per i raggiunti limiti di tempo nel Teatro Niccolini, sede dell’evento, ma la promessa è stata quella di filmare e mettere online la lezione il prima possibile.

grecolatinovivo

È stata un’esperienza insolita anche per il fatto che alcuni relatori hanno effettuato la loro esposizione in latino, usando la cosiddetta pronuncia restituta (adottata ormai nella stragrande maggioranza del mondo). Petterson, per esempio, che ha titolato il proprio intervento Quomodo nos ipsos Latine doceamus? (“Come possiamo imparare da soli il latino?”), parlando dei metodi per avvicinarsi al latino ANCHE come lingua parlata, attraverso espedienti che consentano di coniugare lo studio approfondito con i ritmi spesso frenetici della vita moderna. Non avevo mai sentito prima un lungo intervento orale in latino, quindi avevo il timore che avrei capito ben poco: non solo ho compreso tutto, compresi i passaggi ironici che hanno mosso al riso me e buona parte della platea, ma confesso di aver provato anche un certo piacere nel farlo.

E, a proposito di risate, non sono mancati i momenti in cui si è riflettuto sul valore didattico del gioco: ne ha parlato Alessandro Conti nel suo intervento dal titolo Con un poco di zucchero: la didattica del gioco per il latino, concentrandosi sulle possibilità offerte dall’insegnamento del latino extra-curricolare a partire dalla seconda media e suggerendo vari modi, sperimentati in prima persona, per coinvolgere gli studenti più giovani, usando giochi, giocattoli, bambole, dolcetti, plastici, cruciverba e altro ancora, senza il rischio di spaventare da subito i ragazzi con il timore dei voti, delle verifiche e con l’impegno dei compiti a casa. Noi di Laudes, inoltre, ci occupiamo da tempo della tematica e stiamo cercando di introdurre a Roma una maggiore consapevolezza del valore didattico delle attività ludiche (ecco un articolo di introduzione generale all’argomento).

Non solo latino per i più piccoli o per persone alle prime armi, però: Jorge Tárrega ha tenuto un intervento dal titolo De usu atque arte docendi in Universitatibus Studiorum (“Sulla pratica e l’arte dell’insegnamento nelle università”), in cui ha spiegato come porta avanti l’insegnamento del latino, in latino, nell’Università di Valencia. Ha esemplificato lo svolgimento di una lezione, mostrando il lavoro svolto sui testi, basato su alcune costanti come la lettura comune e ripetuta, la ricerca di sinonimi e contrari, la spiegazione delle iuncturae e, soprattutto, una costante attenzione allo stile e ai contenuti di ciascun autore.

Come già accennato, non sono mancati strali indirizzati ai detrattori del “nuovo” metodo. Il motivo principale è che viene osteggiato, più o meno esplicitamente, in buona parte delle scuole italiane, spesso con argomenti fittizi come quelli succitati. Come ho già detto, però, non ritengo che comportarsi allo stesso modo dei detrattori, usando argomentazioni capziose o strategie retoriche atte a svilire il metodo “avversario”, sia una scelta saggia. Affermare che il latino rischi di non piacere più ai giovani a causa del metodo “tradizionale” con cui è insegnato, per esempio, oppure che chi insegna secondo il metodo “tradizionale” manchi di passione, di certo contribuisce all’inasprimento della contrapposizione e impedisce che si riescano a cogliere in modo imparziale gli aspetti positivi e quelli negativi presenti in entrambi i metodi.

Non solo la virtù, anche la verità sta nel mezzo. Il punto, come riteniamo a Laudes, è che non esiste UN metodo universalmente valido. Le persone, studenti e docenti, sono differenti: molti studenti si lamentano dell’enorme lavoro di tipo puramente grammaticale, è vero, ma anche nelle sezioni che sperimentano il “nuovo” metodo si levano i primi mugugni. Per avere un esempio divertente e, soprattutto, dal punto di vista di uno studente, si può leggere qualche pagina di un blog scritto nel 2015: tra i numerosi errori grammaticali e ortografici si evince l’odio generalizzato della classe nei confronti della docente, mai chiamata con il suo nome ma con il trasparente appellativo di Crudelia Demon; appunti a metà tra il critico e l’ironico sono riservati al manuale Athènaze e alla pratica di imparare liste di parole a memoria, cosa oltretutto sconsigliata da parte di quasi tutti i relatori presenti al convegno. Ho personalmente seguito un buon numero di studenti afflitti dall’Ørberg e, come per il metodo “tradizionale”, molta è l’importanza dei comportamenti tenuti dal docente: appioppare ai metodi gli errori dei docenti non è altro che una strategia retorica di delegittimazione.

In realtà i due metodi sono più vicini di quanto non si pensi. Ecco alcuni spunti di riflessione: la grammatica si studia in entrambi i casi, cambia solo il momento in cui farlo; in entrambi i casi si fanno esercizi di tipo ripetitivo, che siano per via orale o scritta, domande e risposte o traduzioni di brevi frasi; l’importanza del lessico è ormai sottolineata in OGNI manuale, anche nei cosiddetti “tradizionali”, in cui sono da anni presenti liste di parole da conoscere (che poi si ritrovano nelle frasi degli esercizi) e schede di approfondimenti su singole famiglie semantiche; l’uso di espedienti didattici e mnemonici è lasciato quasi sempre all’iniziativa del singolo docente, sia esso un fautore del metodo “tradizionale” o di quello “nuovo”, e lo stesso si può dire per la passione e la capacità di comunicare positivamente con i ragazzi.

Insomma, dal mio punto di vista sono aperte le vie per abbandonare questa contrapposizione e cominciare un serio lavoro di analisi sui singoli espedienti da usare e su come integrarli, ragionando anche sulle percentuali di tempo da dedicare alle singole attività: ricordiamoci sempre che la varietas e l’eterogeneità nel condurre le lezioni sono una ricchezza e contribuiscono a mantenere desti l’interesse e l’attenzione dei ragazzi nei confronti di materie come il latino e il greco che, ogni giorno di più, vengono messe sotto attacco da parte di una classe politica povera di idee e spirito.