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Stiamo difendendo la didattica in presenza o la didattica del controllo?

In questi mesi in cui la scuola è stata al centro di tanti e diversi dibattiti ho letto, ascoltato e osservato. La questione è per me tanto delicata quanto importante, e perciò mi sembrava che meritasse tutta la mia riflessione migliore, il mio tempo e la mia esperienza: non un’impressione, non una nostalgia, non un preconcetto. Sono stata a scuola, da precaria, come tante e tanti in questi giorni. Ho avuto paura per me, per la mia famiglia, per i miei amici e allo stesso tempo ho sentito le voci che da dietro i banchi supplicavano “no prof, speriamo di non tornare in Dad, che la Dad è un incubo”. Mi sembrava una questione impossibile da ricomporre.

Oggi però, una settimana dopo aver finito la mia supplenza, mi capita per le mani il regolamento che la scuola in cui insegnavo ha in vigore per la didattica a distanza: “La netiquette della DDI per docenti e studenti”.

Sospettavo che cose del genere (regolamenti per la Dad, didattica a distanza, o DDI, didattica digitale integrata, come preferite) esistessero, l’avevo un po’ annusato quando qualcuno durante una lezione a distanza, dalla sedia del proprio tavolo da pranzo, mi aveva chiesto il permesso di andare in bagno. Devo aver fatto una faccia stralunata, il mio tipico “eh?”, perché loro subito “eh prof, certo che dobbiamo chiedere il permesso di andare in bagno”. Lì per lì mi ero limitata a un cenno di “ok, fate come vi pare”, senza rendermi conto fino in fondo di cosa questo volesse dire.

Adesso l’ho capito meglio, anche grazie a questo regolamento, di cui sospetto esistano infinite varianti – ma tutte simili nella sostanza – in praticamente quasi tutte le scuole.

Quindi, cosa dice il regolamento?

Bene, la prima cosa fa un po’ ridere. Stabilisce infatti che «gli studenti si impegnano a frequentare le videolezioni in modo responsabile, consapevoli dell’occasione formativa bla bla bla». Non ci vuole un linguista per notare l’idiozia logica: se faccio un patto, qualcosa che ho contribuito a concordare, io mi posso impegnare (tipo il matrimonio), ma è quantomeno assurdo che si possa pretendere di impormi l’impegno attraverso un regolamento. Oltretutto «la partecipazione attiva e interessata è doverosa, come avviene nelle lezioni in presenza», per cui ingenuamente mi chiedo: può l’interesse essere doveroso? Sono minuzie linguistiche? Forse, ma il resto del testo è perfettamente coerente con questo presupposto: io scuola regolo e stabilisco, perché tu studente non sei in grado di partecipare attivamente e consapevolmente al processo educativo.

Passiamo ai punti successivi del regolamento, che possiamo così sintetizzare:

– puntualità e presenza;

– microfoni e videocamere sempre attivati;

– il telefono non va bene per seguire le lezioni ci vuole il computer o il tablet se non potete permettervelo ditelo alla scuola vi faremo avere un tablet in comodato;

– abbigliamento decoroso (sic);

– obbligatorio trovarsi in un luogo idoneo a seguire la lezione (sic sic);

– vietata la presenza di altre persone durante la lezione «per evitare disturbo o distrazione»;

– anche online vale il regolamento d’istituto;

– non si possono registrare audio, video o scattare foto (uso improprio è punito con sanzioni disciplinari e/o penali);

– i genitori devono vigilare;

– il mancato rispetto di suddette regole autorizza il consiglio di classe a una valutazione finale negativa nelle singole discipline.

Potrei commentare punto per punto (probabilmente sarebbe più divertente), ma provo a mettere insieme le cose con le riflessioni che mi rimbalzano in testa da qualche settimana ed enucleare alcuni punti critici.

1) Il cuore di tutto (che gente molto più studiata di me va dicendo da un po’) è che ci siamo approcciati alla Dad senza aver effettivamente consolidato alcuni fondamentali dell’educazione. Ne dico uno stupido e quasi mi vergogno a dirlo, ma mi pare che il problema sia proprio lì e quindi devo dirlo: gli studenti e le studentesse sono al centro del processo educativo, cioè sono protagonisti, cioè contano tutte le loro specificità.

Questo vuol dire che non è possibile pensare una scuola che non tenga conto del contesto familiare (mamma e papà lavorano, c’è nonna di là che ogni tanto chiama perché con il covid la badante non può venire più, e quindi tanto sto a casa in Dad, ci penso io, magari devo solo darle le medicine o un bicchiere d’acqua, ah no? non posso?), socioeconomico (divido la stanza con tre fratelli, in salotto c’è mia madre che fa smart working, mi metto in cucina anche se ogni tanto qualcuno magari viene a farsi il caffè e che problema sarà mai, magari rispolvera un attimo la prima catilinaria… ah no? non è possibile?), relazionale (ho una videocamera che è un cesso, stamattina mi sento un cesso, guarda che mega brufolo mi è venuto, oddio mo se devo accendere la videocamera passerò sei ore con la mano sulla fronte per nascondere il brufolo che se poco poco la tolgo magari mi screenshottano e mi fanno un meme che dura fino a giugno, vabbè magari se non la accendo la prof capisce….ah no? non posso?).

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2) Conseguenza di questo considerarli esseri bidimensionali è che non vengono considerati ovviamente come persone degne di fiducia, né con cui vale spendere tempo e dialettica. Più semplice stabilire aprioristicamente che se hanno la videocamera spenta è perché stanno facendo altro (dormono, giocano, chattano, fanno dei tik tok) e che il loro unico obiettivo sia fregare i docenti (come, dopotutto, molti quotidiani nazionali non fanno che confermarci, ad esempio qua o qua). La mancanza totale di dialogo educativo genera mostri.

3) La disciplina, il decoro, l’autoritarismo. Sempre tornando al fatto che ci mancano evidentemente le basi, la Dad ha mostrato evidentemente la fallacia di alcune equazioni su cui abbiamo costruito la maggior parte dell’azione didattica. In molte di queste equazioni il primo termine è sempre il voto: con il voto possiamo esercitare il controllo, quindi ottenere attenzione, rispetto, autorevolezza e disciplina. L’altro termine è la presenza, sulla bocca di tutti, difesa a spada tratta perché – a quanto pare – presenza è condizione sufficiente a garantire il valore della relazione educativa. La presenza, certo, è importante ma – mi sentirei di aggiungere – se nella nostra equazione presenza=controllo, allora stiamo mettendo a rischio la sanità di tutti per difendere il panopticon. La presenza ha ancora un valore – e per fortuna quello non possiamo toglierglielo – nella relazione tra pari (e infatti se qualcuno li ascoltasse è quello che ti dicono “mi manca pazzeggiare nel cambio di lezione”, “sbirciare la compagna di banco”, “scambiarci sguardi d’intesa quando la prof si impiccia con la lim”), ma se continuiamo a proporre un’azione educativa monodirezionale la presenza non ha davvero nessun valore.

Ed ecco allora che dobbiamo ricorrere ai regolamenti, ecco che arrivano le foto delle interrogazioni da bendati, i tour della stanza per controllare che non ci siano genitori apprensivi pronti a suggerire da sotto il letto (non mi metto a parlare di autovalutazione che magari a qualcuno potrebbero sanguinare le orecchie).

Quello che mi sconvolge è questo: possibile che se mi tolgono il controllo e il voto non riesco più a esercitare il mestiere del docente?

Questo è quello che mi aspetterei di leggere su un giornale. Perché è la notizia più grave che si possa dare oggi sulla scuola, mi pare.

Ho fatto la Dad, o DDI, anche io. Me ne stavo in camera mia (che quella sola ho), ogni tanto i coinquilini mi allungavano il caffè, spesso stavo in tuta, o ancora con il pigiama sotto. Alla prima ora ci davamo il buongiorno, scherzando sul fatto che qualcuno avesse la videocamera spenta perché era sulla tazza del water, o perché era ancora in pigiama. Chi faceva colazione, chi si stiracchiava, chi aveva ancora il letto sfatto (ora mi chiedo: avrei dovuto chiedergli di rifare il letto, per il decoro dell’ambiente in cui si svolgeva la chiamata?). Qualcuno si collegava qualche minuto prima, che sapeva di trovarmi, per poter fare due chiacchiere privatamente, mostrarmi la collezione di palloni della AS Roma. C’era un clima familiare, che almeno non era alienante.

Quando il gatto è saltato sulla scrivania in molti hanno acceso la videocamera per mostrare i propri animali domestici (anche un coniglio tenerissimo). Quando abbiamo letto a tre voci un racconto di Marquez in molti stavano stesi a letto, e semplicemente ascoltavano, poi alla fine ne abbiamo parlato tutti insieme. Per la prima volta mi sono accorta che avevano seguito tutti, anche se le videocamere erano spente.

Lo ammetto, non è facile non vedere le reazioni sui loro volti, non ho quel feedback che mi dice se mi stanno seguendo, se magari in qualcosa non sono stata chiara. Però ne ho parlato con loro, gli ho detto che del pigiama non me ne frega niente, che capisco la vergogna ad accendere la webcam, gli ho spiegato perché mi sarebbe piaciuto vederli: per associare nomi e volti, per ricordarmeli meglio, per vederli sorridere, insomma non perché volevo controllarli.

Comunque, ne abbiamo parlato e ho lasciato che fossero loro a scegliere. Ognuno si è sentito libero, e quasi tutte e tutti hanno sempre partecipato. Ah sì, gli ho detto che se facevano dei meme su di me mi avrebbe divertito vederli, a patto che non fossero violenti o degradanti del mio essere donna e persona. Non me ne hanno mandati, quindi l’ho fatto io, come da immagine in allegato.

Ho anche interrogato, ma questa è un’altra storia che magari vi racconto in un altro pippone.