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Autorevolezza o autoritarismo?

Cosa hanno in comune il dibattito sui problemi legati alla divulgazione scientifica contemporanea e quello sulla scuola? Apparentemente poco, eppure credo che un filo conduttore si possa ritrovare nella questione dell’autorità.

La parola “autorità”, sulla cui origine invito a leggere il saggio di Maurizio Bettini Alle soglie dell’autorità (contenuto nella raccolta L’autorità, curata da Bruce Lincoln e tradotta in italiano nel 2000 da Einaudi), deriva dal latino “auctoritas”. Tra le varie accezioni del termine latino “auctor”, oltre a colui che fa crescere”, troviamo il “dare successo”, il “condurre a un esito felice, prospero”. Dunque l’auctor è colui che crea, ma anche il maestro, il modello, colui che è dotato di credibilità e rende credibile ciò che dice o promette perché ha già dimostrato, conducendo a esiti felici, il valore, la veridicità delle proprie affermazioni e iniziative. Una sanzione sociale ricevuta dall’esterno, dagli altri, e che non si basa tanto sul proprio ruolo formale e giuridico, quanto sulla credibilità conquistata  con il tempo presso coloro con i quali si interagisce.

 cicero

Dal sostantivo sono nati due aggettivi: “autoritario” indica, secondo il vocabolario Devoto-Oli, qualcuno “che impone con intransigente fermezza la propria volontà o tende ad una esagerata affermazione della propria autorità”, mentre con “autorevole” si intende colui “che gode di stima e credito notevole, che ispira riverente fiducia”. Apparentemente di segno opposto, i due aggettivi sottolineano in modo complementare le diverse prospettive per leggere la questione dell’autorità, oscillante tra imposizione, accettazione più o meno volontaria e rifiuto.

Tra i due aggettivi, dando per valide le riflessioni etimologiche di Bettini, “autorevole” sembra aver conservato una maggiore vicinanza al sostantivo originario, mentre “autoritario”, derivato dal francese autoritaire nella seconda metà del diciannovesimo secolo, sembra aver subito l’influenza della specializzazione in ambito politico; non a caso, l’unico esempio di uso del Devoto-Oli è proprio “stato autoritario”, cioè “quello a organizzazione accentrata e gerarchica […] nel quale i poteri sono esercitati dall’esecutivo senza controllo (o con controllo limitato) da parte di altri organi”.

Quale dei due aggettivi sarebbe auspicabile applicare a un docente o a un divulgatore scientifico?

Ad alcuni questa domanda potrebbe apparire retorica, eppure non lo è: contano molto la propria visione del mondo e il modo in cui ci si posiziona di fronte alla questione dell’autorità. Sembra uno di quei dilemmi esistenziali alla Hobbes versus Locke, alla “gli uomini sono tendenzialmente buoni” contro “gli uomini sono tendenzialmente cattivi”. Siete per un’autorità autorevole o autoritaria? Il problema, però, è che soprattutto nel caso dei docenti la questione è più complessa, dal momento che l’autorità viene esercitata nei confronti di persone in fase di formazione, in larga parte minorenni, dunque non sullo stesso livello di chi dovrà esercitare l’autorità, se non altro dal punto di vista legale.

vignetta kidelka

È di pochi giorni fa un articolo di Paola Mastrocola che, come in passato, non ha perso l’occasione fornita dai recenti fatti di cronaca per ribattere sul tasto dell’autorità intesa in senso repressivo. Dopo aver elencato alcune “scenette diverse e lontane tra loro”, Mastrocola conclude in modo un po’ trumpiano che bisognerebbe dotare genitori e insegnanti di armamento pesante e convincerli a usarlo senza remore, in modo autoritario, nei confronti dei giovani. Nell’articolo trovano spazio alla rinfusa, senza troppe giustificazioni, idee e argomenti di vario tipo: la crisi della democrazia, i social network, i bambini che fanno chiasso ai ristoranti, l’edonismo, le piattaforme di condivisione video, il bullismo, l’ipse dixit, l’uno vale uno. “O tempora o mores!”, insomma, come da tradizione. Un momento che svela più di quanto intendesse, credo, è la quarta scenetta, in cui Mastrocola racconta di come sia stata totalmente ignorata durante un’ora di supplenza, nel suo ultimo anno di insegnamento. Che fai, in una situazione del genere, da buon docente? “Ti innervosisci. Ti sale una collera. Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto.” Non proprio da manuale. E non paga del risultato prodotto (“Niente.”), cosa ti combina subito dopo? “Mi è partito un discorso veemente, edificante, moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere….” che ha dato frutti ancora peggiori (“Un disastro.”). A quanto pare, oltre a non ricordare che i puntini di sospensione di solito sono tre, Mastrocola non ha tratto insegnamento da un’occasione in cui, da giovane (ce lo racconta nella scenetta successiva), aveva assistito a una splendida lezione di supplenza: il docente, anziché innervosirsi e lanciare ordini e divieti a caso, si era prodigato in un racconto su Konrad Lorenz e i suoi esperimenti con le anatre. Risultato? La classe aveva ascoltato la lezione con interesse.

Beh, con una classe disattenta è ovvio che non si può nemmeno tentare di far lezione”. Ma siamo proprio sicuri che il metodo migliore per catturare l’attenzione dei ragazzi sia innervosirsi, farsi salire la collera e tentare di lanciare ordini e divieti a caso per imporre la propria autorità? Proviamo un attimo a tornare nei panni di un giovane studente: siamo sicuri che ascolteremmo volentieri un anziano sconosciuto, arrabbiatosi dopo qualche minuto perché la propria autorità non viene data per scontata e perché nell’aula non regna un silenzio tombale?

La domanda retorica ne introduce una reale: i maestri e i divulgatori lavorano correttamente allo scopo di acquisire autorevolezza? Probabilmente molti credono di dover essere ritenuti autorevoli dato il proprio percorso di studi. Quando scoprono di doversi conquistare l’autorevolezza giorno dopo giorno, avendo a che fare con persone sconosciute, alcuni scelgono la scorciatoia dell’autoritarismo: esercitare in modo dispotico le prerogative del proprio ruolo, senza preoccuparsi del rapporto con i fruitori del proprio insegnamento.

Le persone vanno non solo informate, ma convinte che un qualcosa stia proprio in quel modo e non in un altro. Nulla di nuovo sotto il sole, per chiunque abbia letto Contro il metodo di Feyerabend in cui si parla, tra le altre cose, della rivoluzione scientifica galileiana; non basta inventare il cannocchiale e dimostrare di avere ragione (almeno per il momento): bisogna convincere gli altri. Ovviamente, i metodi di persuasione e le parole dovranno essere differenti: la comunità scientifica, i decisori politici e l’opinione pubblica non si convincono nella stessa maniera, così come un docente insegnerà in un modo all’interno di una classe di 30 studenti minorenni, in un altro modo se dovrà seguire un gruppo di 4 adulti lavoratori, in un altro ancora se dovrà educare un infante.

La rinuncia a differenziare i metodi divulgativi e l’impigrirsi dell’ambiente accademico lasciano ampio spazio a chiunque abbia il desiderio e la capacità di parlare all’opinione pubblica.

Anche perché, come scriveva il filosofo e scienziato politico Giuseppe Rensi nel 1920, nelle conclusioni di Filosofia dell’autorità

«Può essere seducente e doveroso insorgere contro l’autorità e il conformismo, quando il loro impero è esteso, formidabile e potente, su tutte le sfere della vita politica, economica, religiosa, scientifica, morale dell’individuo, e, combattendoli, riuscire a sottrarre ad essi, e a rimettere alla libertà di questo, almeno un qualche margine di essa vita». Un pensiero che, credo, sarebbe sottoscritto con grande rapidità da quanti, online e non solo, si battono per una discussione pubblica sui temi all’ordine del giorno, tra cui le guerre, le politiche monetarie e di austerità economica, le scelte in ambito medico per sé stessi o per i propri familiari.»

Pensiero che forse sarebbe stato guardato con simpatia anche da Platone, che nel settimo libro della Repubblica, al capitolo 4, analizzando il racconto della caverna svolto poco prima, così si esprime sui sapienti che si isolano nello studio, rifiutandosi di ridiscendere nella caverna per condividere non solo le proprie conoscenze, ma il proprio stile di vita con il resto dei concittadini:

«In base alle nostre premesse non è mai logico affidare lo Stato agli incolti e a chi ignora la verità, ma neppure a colui al quale viene permesso di passare tutta la sua esistenza nello studio: a quelli, perché nella vita non hanno un unico scopo a cui tendere in ogni loro azione privata e pubblica; a questi, perché non lo faranno volentieri, ritenendosi già in vita trasferiti nelle isole dei beati.»
«È vero» disse.
«Dunque noi fondatori dello Stato abbiamo il compito di costringere le nature migliori ad apprendere ciò che prima abbiamo definito la cosa più importante, ossia a contemplare il bene e a compiere quella ascesa; e quando siano saliti e abbiano visto abbastanza, non si deve permettere loro ciò che ora si permette.»
«Che cosa?»
«Di rimanere lassù rifiutandosi di scendere di nuovo fra quei prigionieri e di partecipare alle loro fatiche e ai loro premi, frivoli o seri che siano.»

 

 

Quando il bullismo è contro i prof

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Anche oggi i giornali danno notizia di un professore picchiato a scuola, secondo un copione a cui ormai stiamo gravemente facendo l’abitudine: studente rimproverato, sgridato o che ha preso un brutto voto, genitore che picchia il professore. Questa volta il genitore si è pentito, la ragazza ha detto una bugia; insomma, ci sono come sempre circostanze da valutare che però, ora, non ci interessano: ciò che interessa è che questi episodi, in cui gli insegnanti vengono picchiati da genitori o da studenti, si ripetono con una frequenza allarmante. Solo negli ultimi giorni, un professore è stato picchiato in classe da uno studente in provincia di Verona e una professoressa è stata legata, picchiata e ripresa con un cellulare ad Alessandria.

Si rischia troppo spesso di cadere nella tentazione, soprattutto quando a comportarsi male sono gli studenti, del “O tempora o mores!“, del luogo comune per cui oggi i giovani sarebbero superficiali e non avrebbero più alcun rispetto per gli adulti. Niente di più sbagliato: è sempre stato così. Il ruolo della scuola e degli insegnanti è proprio quello di agire sui mores, sui comportamenti; per farlo, però, è necessario avere le spalle coperte, dal punto di vista politico, e un ruolo riconosciuto all’interno della comunità. Oggi mancano entrambi gli elementi.

Stiamo raccogliendo i frutti di una svalutazione dell’istituzione scolastica operata da tutte le forze politiche che si sono alternate al governo negli ultimi anni: una scuola che per essere considerata “valida” e “utile” è stata affiancata al mondo del lavoro, anche esplicitamente con l’alternanza scuola-lavoro, come se il suo ruolo da sé non bastasse, come se avesse senso solo in un’ottica di “preparazione di lavoratori”. Si capisce bene come, al di là della variabile capacità individuale di gestione di una classe e dei rapporti interpersonali con i genitori, in generale il ruolo del docente venga indebolito, quando alla scuola viene negata una propria ragione d’essere indipendente dal contesto lavorativo.

Non solo. La scuola è stata aziendalizzata, molti professori sono precari e il loro futuro dipende dalle decisioni del dirigente scolastico, ormai diventato capo: un professore precario, magari un supplente, che non sa nemmeno dove starà l’anno successivo, quale forza può avere di fronte a critiche di studenti e genitori? Come può agire, imporsi sui comportamenti, se rischia di essere il primo a saltare nel caso di contrasti? Un professore così debole non può operare in maniera corretta in un contesto critico come quello dell’istruzione degli adolescenti.

La frequenza di questi episodi è preoccupante, ma ancor più preoccupante è l’assoluto silenzio politico su questi continui episodi che evidenziano quanto sia stato indebolito il ruolo dell’insegnante. La classe politica di un sistema democratico deve assumersi l’impegno di ridare forza all’istituzione scolastica in sé, come fulcro e pietra miliare della formazione dei cittadini: non c’è altra soluzione.

 

Smartphone usato per studiare

L’uso degli smartphone in classe

Recentemente, la ministra Valeria Fedeli si è espressa favorevolmente sull’uso degli smartphone a fini didattici e ha istituito una commissione che dovrà dettare delle linee guida sul loro utilizzo in classe. Chissà come verranno accolte queste indicazioni da tutti quelli che, invece, credono che gli smartphone debbano essere vietati, vedendoli come pericolosi elementi di disturbo. In realtà, le ragioni che supportano entrambe le posizioni sono grosso modo corrette: gli smartphone sono utili, ma distraggono.

Nei 5 minuti che ho impiegato per iniziare a scrivere questo post mi sono arrivate due notifiche di Whatsapp, tre di Facebook e una di Messenger. Lo smartphone, i social network e i numerosi mezzi con cui ci relazioniamo ai nostri amici e colleghi sono indubbiamente un pericoloso disturbo, soprattutto quando dobbiamo portare a termine compiti (imposti o volontari) che, al contrario, richiedono concentrazione e quiete. E sono un elemento di disturbo che riguarda tutte le fasce d’età, anche quelle dei docenti e degli adulti in generale.

Smartphone e scuola

D’altra parte, ci vorrebbe davvero molta immaginazione per affermare che uno strumento portatile potente quanto un pc, connesso a internet, non possa servire come strumento didattico. L’unico dubbio è il come, visto che non siamo ancora riusciti a integrare l’uso del computer nella didattica tradizionale e non si vede per quale motivo dovremmo riuscirci in tempi brevi con gli smartphone.

“Allora intanto vietiamoli”, si potrebbe dire. E all’estero, in molte scuole, l’uso degli smartphone è vietato o rigidamente disciplinato, come riassume Alberto Magnani sul Sole 24 ore, anche con buoni risultati nel miglioramento delle valutazioni (ma è un parametro di dubbio valore). Inoltre, come scrive qualcuno, è proprio la scuola ad essere rimasta come ultimo luogo deputato a imporre delle regole e dei limiti invalicabili nell’educazione di un ragazzo.

Tuttavia, la storia ci insegna che vietare un uso condiviso da tutti (che, naturalmente, non danneggi il prossimo) difficilmente contribuisce a porre un argine a quell’uso. Non solo, nel caso degli smartphone, vietarne l’uso a scuola crea un ambiente asettico, privo della principale fonte di distrazione contemporanea, con cui, al contrario, sarebbe bene confrontarsi sotto la vigilanza dei docenti proprio in un contesto in cui è richiesta concentrazione. Molti studenti che abbiamo seguito e seguiamo, pur volendo studiare, non si ritengono in grado di gestire il tempo e cadono inevitabilmente vittime del canto delle sirene digitali.

Cosa deve insegnare la scuola, se non soprattutto a farcela da soli? Proprio nella scuola, il luogo condiviso da tutti i giovani che richiede lo svolgimento di attività complesse non abituali nella quotidianità di un ragazzo, si dovrebbe insegnare a gestire (da soli e con gli altri) la propria energia e il proprio tempo, a indirizzare la concentrazione, a perseguire con costanza interessi che non siano solamente il (sacrosanto, nelle giuste dosi) cazzeggio.

Prima ancora che a usare gli smartphone come strumenti didattici, bisognerebbe insegnare a conviverci, senza pensare che siano una maledizione lanciata dal cielo, che la loro introduzione nelle nostre vite abbia peggiorato la società o, peggio, fare finta che non esistano.

Smartphone in classe