[Rassegna stampa] Latino sì, latino no: la terra dei casi

Negli ultimi mesi le riflessioni sulla didattica del latino e sulla sua utilità hanno avuto ampio spazio su quotidiani e blog, e la ragione è facilmente intuibile: la didattica di una lingua morta è difficilmente difendibile in un contesto culturale in cui primeggia l’idea che il fine ultimo dello studio sia una sua utilità in ambito lavorativo.

Combattendo i detrattori sullo stesso campo della logica utilitaristica, molti difendono il latino evidenziandone invece la sua spendibilità nella vita e nel lavoro, perché abitua al “problem solving”, come evidenzia Guido Tonelli, fisico del CERN:

Prendiamo proprio la traduzione dal greco e dal latino. Sei lì che combatti con il vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un gruppo di frasi e ti sembra di avere trovato la chiave. Soltanto che non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio. Ed ecco che di colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava un’ipotesi molto ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto questione di logica. Non saprei trovare un’attività più vicina al lavoro scientifico concreto che viviamo quotidianamente. Capita molto spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo particolare, apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto, questo stesso meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma.

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra essere la ricerca commissionata dal Corriere della Sera ad Almalaurea, che evidenzia come gli studenti usciti dal classico (e quindi con una solida formazione umanistica) ottengano risultati migliori nel percorso universitario, soprattutto nelle facoltà scientifiche.

Riservandoci il dubbio che alla base ci siano anche fattori sociali (anche se in parte smentiti: «Oggi è ancora vero che chi viene dal Classico gode di un contesto socio-culturale più avvantaggiato; ma il dato del 33,8% proveniente dalla classe media impiegatizia, sommato al 13,7% della classe del lavoro esecutivo, smonta l’equazione», sottolinea il direttore di Almalaurea Ivano Dionigi), è innegabile che lo studio del latino e, soprattutto, l’esercizio della traduzione, siano attività più complesse della media delle attività svolte durante gli anni dell’istruzione obbligatoria, e che ciò fornisca agli studenti delle capacità di base difficilmente conquistabili con il passare del tempo, come ci ricorda Luca Ricolfi, sempre sul Sole 24 Ore:

Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso. La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente.

Il rischio che la riduzione delle ore di latino e la cancellazione delle prove di traduzione rientri in una generale semplificazione del percorso scolastico era già stato illustrato dalla scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, in un appassionato pamphlet contro la scuola facile. La colpa di questa semplificazione, per Mastrocola, è da attribuire al “deficit di motivazione nostra, di noi adulti, insegnanti, scrittori, intellettuali, politici, governanti, famiglie”; e così la pensa anche Nicola Gardini, autore di “Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile”: 

I giovani, quando non sono impediti dalle circostanze e se guidati da insegnanti capaci e appassionati, sono aperti alle avventure più impegnative dell’intelligenza. Sono gli adulti i pigri e i disfattisti, quelli che cercano ragioni laddove la ragione è la cosa stessa.

Al di là delle statistiche che mostrano l’utilità del latino al di fuori di esso, Gardini evidenzia come il latino vada studiato perché è “il codice genetico dell’Occidente”, “il suo sistema immunitario” e “la fonte prima del principio di identità”. Insomma, la sua utilità appare decisamente secondaria di fronte a una ragione più profonda, che dovrebbe convincere anche i più scettici a sostenere lo studio del latino: l’importanza del tempo”. La spiega Ivano Dionigi in un’intervista a Linkiesta:

Il problema è che si va a caccia del nuovo, dell’originale. Ma come diceva Berenson, “l’originalità è per gli incapaci”. In questo contrasto tra novum e notum, è meglio situarsi in mezzo. Prendere atto che gli antichi, ormai, per noi sono esotici. Perché sono antagonisti alla modernità, che è la moda. E che a parlare solo del presente, si conosce solo (e male) il presente. E che il latino è la madre certa, anzi certissima, dell’italiano. Non si può rifiutare un genitore senza poi smarrirsi. [Non smarrirsi significa] conoscere le parole. È un antidoto importante per il pensiero, soprattutto oggi, che assistiamo a un appiattimento della lingua, in cui si usano mille parole per dire la stessa cosa. E sa cosa succede quando si dimentica il significato delle parole? Si perde di vista la realtà. Non la si conosce più, e si rimane ingannati. Oggi le parole sono state mandate in esilio dai padroni del linguaggio, che non siamo più noi. E non va dimenticato che le rivoluzioni e i colpi di stato si fanno, prima ancora che con le armi, con le parole. Conoscere le parole aiuta a difendersi.

Così come Dionigi, anche Luca Serianni, linguista e storico della lingua, pensa che il latino vada studiato per il suo innegabile carattere fondativo della civiltà occidentale e per il continuo ripullulare dell’immaginario classico nella esperienza delle generazioni moderne”. Ma aggiunge che, per preservarlo, è necessario ripensarne l’insegnamento, ancora oggi troppo schiacciato sulla grammatica:

Ma l’inconveniente principale sta in un soverchiante apparato grammaticalistico fine a sé stesso: non si parte dal testo in quanto tale, come sarebbe necessario, ma si cercano testi che illustrino le regole di volta in volta esposte nella teoria.

La necessità di difenderlo dagli attacchi della contemporaneità, continua Serianni, può essere l’occasione per correggere alcuni vizi della tradizione didattica, affiancando agli scritti classici anche quelli in latino medievale (altro passaggio fondamentale della nostra civilità), prestando maggiore attenzione al lessico (il cui legame con la nostra lingua è tuttora evidente) e spiegando le regole morfologiche e sintattiche a partire dall’analisi del testo.

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