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Piccola apologia dell’errore

Se facessimo un sondaggio su quale colore rappresenti meglio la scuola, con ogni probabilità il più votato sarebbe il rosso. Rosso come il tratto di penna, matita, pennarello che in genere evidenzia l’errore fatto nel compito in classe. Il rosso è un colore come tanti, con connotazioni positive e negative a seconda del contesto (il sangue ma anche l’amore), ma state certi che la prima cosa che si prova a sbirciare quando sta per venire riconsegnato un compito è la densità di rosso, che denoterà la quantità di errori, e di conseguenza il voto.

La scuola è il regno degli errori, anzi, la scuola esiste proprio per gli errori. Eppure, l’errore viene generalmente considerato come l’anormalità, piuttosto che la normalità: l’errore è odiato, temuto, evitato nelle maniere più disparate (dal copiare il compito al compito in bianco: meglio bianco che rosso, si penserà); l’errore provoca vergogna e imbarazzo nei confronti della classe e del professore, e la paura di errare porta al blocco, alla chiusura, al non intervenire, al non interagire. Sarà anche per l’uso che se ne fa al di fuori della scuola: indicare un errore nelle attività altrui ci pone in una posizione di superiorità, in qualche modo quindi ci gratifica, tanto quanto può mortificare (e chiudere) chi viene colto in fallo.

Ma torniamo alla scuola. Dicevamo che l’errore viene considerato l’anormalità: etimologicamente è così, “errare” è vagare senza una meta, ma ancora prima, in latino, era “sbagliare strada”. C’è una strada giusta, normale, e ce ne sono infinite sbagliate, anormali. Ma in un contesto didattico la normalità diventa anormalità e viceversa. Se si sta imparando è impossibile non sbagliare: sbaglia chi insegna, figuriamoci quanto può sbagliare chi sta imparando. Io, l’altro giorno, preparando un seminario sull’errore linguistico (la mia prospettiva è quella di un docente di italiano), mentre prendevo qualche appunto personale per impostare il discorso, ho scritto “sfalzare”, con la z (ecco il correttore che me lo segna col rosso infame): preso tra i mille pensieri su cui stavo ragionando, mi sono perso la connessione tra “sfalsare” e “falso”, e l’ho scritto così, come lo pronuncio. Insomma, l’errore non per forza denota ignoranza: soprattutto quando si scrive, il nostro cervello gestisce così tante attività contemporaneamente che ogni tanto si perde qualche pezzo.

Ma non prendiamoci in giro: l’errore il più delle volte indica una mancanza, una carenza, un dominio non completo dell’argomento o dell’attività. Per insegnante e studente l’errore è il punto di partenza: ti spiego una cosa, tu sbagli, ti spiego dove hai sbagliato, cosa hai sbagliato, quale norma è stata violata (o quale uso standard è stato violato, nel caso delle parole), cosa fare per non incorrere nello stesso errore. Tu sbaglierai di nuovo, io spiegherò di nuovo, restringendo sempre più il campo. Dal blocco di marmo si ricava la statua dalle sembianze reali, ma la statua, nel mentre, è passata per tanti momenti in cui è stata un coso-senza-forma, un obbrobrio senza qualità riconoscibili: intervenendo qua e là, piano piano, una zona per volta… ecco vedi, quello è il naso, quelle sono le orecchie, quello è il braccio, e quella la mano che tiene un sasso.

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L’errore è traumatico. Frustra il professore, convinto della perfezione della sua spiegazione, della linearità delle regole che ha esposto; frustra lo studente, eppure le regole le sapeva: cos’altro deve fare per accontentare il professore? Perché l’esercizio non viene? Perché il tema è scritto male?

Evitiamolo, questo trauma, perché l’errore è il fulcro della didattica (esiste addirittura una pedagogia dell’errore). Solo attraverso gli errori, l’insegnante può capire se la lezione è stata compresa, se le indicazioni sono state acquisite. No? Perfetto, proviamo in un altro modo, con altre parole; solo attraverso gli errori, lo studente si sporca le mani, ricorderà la regola per le numerose volte in cui l’ha violata. Negli anni universitari usavo “riguardo” senza la preposizione: “Riguardo questa cosa, volevo dirti ecc.”, e il prof. Serianni ogni volta mi correggeva “riguardo A questa cosa”: in maniera molto neutra e netta, numerose volte; tanto ho sbagliato che non ho più sbagliato, e ancora mi risuona (come competenza, per quanto minima, non come trauma) quella preposizione “a” detta con maggiore intensità.

È un episodio di scarsissima rilevanza, ma mi ricorda ogni volta che così si acquisiscono le competenze: solo scalpellando scalpellando, di qua e di là, alla fine si può ottenere un bel naso.