Archivi categoria: Articoli

Il mostro della matematica: racconto di un’esperienza in classe

È una mattina fin troppo calda per essere febbraio, e per la prima volta mi appresto a entrare in una scuola in veste “ufficiale”, per tenere un corso di “recupero” di competenze base.

Si tratta di una situazione nuova per me e un po’ di preoccupazione sale: è vero che l’esperienza non mi manca, sono anni che insegno matematica e fisica con Laudes, ma principalmente in modalità uno a uno. Come andrà con un nutrito gruppo di ragazzi e ragazze, dentro a una scuola? Ho intenzione comunque di dare il massimo: preparo una bella scaletta con diverse attività, un gioco iniziale per sorprenderli, i collegamenti tra il programma di matematica e il gioco che voglio proporli. Insomma, pianifico ogni cosa.

Ma come sempre accade, entro in classe e c’è una prima sorpresa: dovevano essere studenti di un primo anno dell’indirizzo Tecnico Commerciale, e invece sono del secondo anno del Liceo Digitale.

Ok, è il momento di improvvisare, come capita spesso anche nell’uno a uno: inizio con un bel giro di nomi, facciamo un po’ conoscenza, gli chiedo di dirmi anche che rapporto hanno con la matematica (disastroso, a sentir loro), poi li spiazzo facendoli alzare per fare qualche partita a Chopsticks (un gioco che si fa con le dita e che richiede strategia e calcolo). Rotto il ghiaccio con un po’ di divertimento (e matematica), ci spostiamo su argomenti più scolastici: gli chiedo che argomenti stanno facendo e iniziamo a vedere qualcosa sulle espressioni con i radicali. E la prima giornata è andata.

Bene, ora devo riorganizzare tutto il programma che mi ero fatto su frazioni, potenze, monomi e polinomi: stanno facendo il secondo anno, non il primo. I tempi sono stretti, ma riesco a tirare fuori qualcosa: domani sarò più preparato. Posso ripartire dalle disequazioni, proseguire con l’algebra, virare ogni tanto sulla geometria per non stancare l’uditorio, e coprire tutto il programma che “devono recuperare”. Risolveranno ogni difficoltà con il programma che ho preparato.

Certo, come no. Il secondo giorno parto con la mia bella lezioncina, ed è già tanto che qualcuno mi presti un minimo di ascolto, tra una chiacchiera, un lancio di aeroplanini, un messaggio su whatsapp. Ok, è il momento di cambiare strategia di nuovo: torniamo a giocare, questa volta a Tokio (un gioco di dadi). Anche questa volta, le barriere tra me e loro iniziano ad allentarsi, iniziano a capire che sono lì per loro e che, così come possiamo divertirci insieme giocando coi numeri, allo stesso modo possiamo affrontare insieme questo corso, e soprattutto la matematica che tanto li spaventa.

E così anche loro cominciano a fidarsi sempre di più, capiscono che se hanno dubbi possono farmi domande senza problemi, capiscono anche che non si sentiranno giudicati per i loro errori.

Io mi rendo conto che la loro agitazione e paura per la matematica diminuisce mano a mano che costruiamo una fiducia reciproca: cerco quindi di coinvolgerli sempre di più. Gli incontri diventano sempre più induttivi: smontiamo e ricostruiamo tutti gli argomenti del “recupero”, arriviamo alle formalizzazione necessarie in matematica ma costruendo da soli i vari “mostri matematici” in una forma comprensibile e intuitiva. Come quando abbiamo affrontato equazioni e disequazioni fratte, e abbiamo capito insieme la necessità di introdurre delle condizioni di esistenza per il denominatore, risalendo fino alle elementari e alla prova delle divisioni per capirlo appieno.

La creazione reciproca di questo clima più disteso e rilassato, oltre a togliere un po’ di agitazione a me, ha fatto sì che si sentissero liberi di chiedere, di parlare, di esprimere i loro dubbi e perplessità. In questo, l’inserimento di una componente ludico-didattica è stato fondamentale: ha permesso di farli giocare, usando competenze legate alla matematica, al ragionamento logico e all’espressione verbale matematica, ma ridendo e sfidandosi a suon di dadi, carte, giochi di società, partite a Taboo a tema…

Piano piano anche lo scopo stesso del tempo che stavamo passando insieme è parzialmente cambiato: più che un corso di recupero è diventato un tentativo di fare pace con la matematica, di capire che questa materia astrusa non è così fuori dalla loro portata come pensavano, anzi può diventare comprensibile e addirittura divertente, tanto che ci si può anche giocare.

Ovviamente, la fiducia va costruita: in caso di dubbi ed errori, per prima cosa li spronavo a cercare autonomamente una soluzione, offrendo eventualmente qualche indizio o traccia da seguire. E spesso la soluzione è arrivata da altri compagni, con un lavoro tra pari che porta ad aiutarsi a vicenda nella risoluzione di esercizi e nel darsi consigli, senza cercare di prevalere sul compagno o di metterlo “in ridicolo”.

E il far pace con la materia non può che abbinarsi a un altro obiettivo: recuperare la motivazione e rafforzare l’autostima. Non riuscire a risolvere una parte di un esercizio non vuol dire essere stupidi o non essere portati per la matematica. Soprattutto, se si considera tutta la parte di esercizio che invece è stata svolta: quando uno studente ci fa caso, poi si sente anche più motivato a cercare di risolvere un eventuale errore, a concentrarsi su una difficoltà.

Nel corso dell’ultima lezione di questo (purtroppo) breve corso, insieme a un educatore-coadiuvatore che ci ha accompagnati in questa esperienza, abbiamo deciso di chiudere proponendo un momento di dialogo e discussione, in cui i ragazzi hanno potuto esprimere liberamente le loro opinioni su quanto fatto insieme. E questo è stato il momento più alto dell’esperienza comune: hanno detto che finalmente erano riusciti a capire varie “cose matematiche” apparentemente spaventose e incomprensibili fatte assieme, che con una buona dose di motivazione si erano accorti di essere effettivamente “bravi” e in grado di farle, che anche i “momenti di gioco” erano funzionali a farli ragionare e usare la logica… che anche un mostro come la matematica, insomma, poteva essere alla loro portata.

Tullio De Mauro e la lingua italiana a scuola

“Le istituzioni dello stato italiano, e anzitutto la scuola, che è l’istituzione più diffusa capillarmente in tutto il territorio, hanno ignorato questa grande vareità di lingue, hanno ignorato il plurilinguismo che caratterizza la storia e la cultura contemporanea della società italiana.


Lo hanno ignorato, anzi lo hanno contraddetto: pretendendo d’insegnare dovunque, dappertutto, nello stesso modo, una stessa lingua, cioè l’italiano letterario.


Al bambino che dalla Puglia si sposta a Torino, portandosi dietro come unico bagaglio culturale il suo dialetto, la scuola non può pretendere di insegnare l’italiano come se l’italiano già gli fosse noto, per un problema politico di tutela ai diritti civili, e per un problema di politica della cultura: se vogliamo che [i bambini] arrivino al termine degli studi noi dobbiamo avere delle maestre e dei maestri capaci di riconoscere, di apprezzare, la realtà linguistica familiare di questi bambini e costruire su di essa, con essa, la conoscenza dell’italiano e delle altre lingue di cultura.


Parole del ’70 che suonano ancora molto attuali, nell’Italia contemporanea, fatta di varietà linguistica e numerose varietà linguistiche. Riaprire la sterminata produzione di Tullio De Mauro su educazione linguistica e pedagogia offre continui spunti, riflessioni e idee per una scuola più equa, funzionale e democratica.


Intanto potete partire da questa mezz’oretta di Wikiradio dedicata a Tullio De Mauro, e curata da Daniele Gambarara: una bella (e piccola) biografia, che parla tanto anche del De Mauro intellettuale e ministro dell’Istruzione.

La trovate su RaiPlaySound: cliccate qui

Il tempo e la scuola

La scuola sembra essere l’unico luogo in cui il contesto non è rilevante.

Qual è il contesto di cui parlo? Tutto quello che c’è attorno all’attività scolastica: i luoghi in cui avviene; il tempo in cui avviene e quello che le si dedica; le persone coinvolte nell’attività, con le loro caratteristiche e le loro peculiarità. Tutto questo raramente viene considerato, a scuola. Quasi sempre, si preferisce correlare gli esiti dello studio e della crescita alla responsabilità individuale: se si hanno carenze, in matematica o in italiano, è perché “si è impegnata poco”, perché “non ha studiato abbastanza”, per non parlare di giudizi più radicali e definitivi, “casi disperati” e “studenti irrecuperabili”. L’impegno sembra essere l’unica variabile presa in considerazione. Tutta la responsabilità è dello studente, paradossalmente anche quando viene ritenuto “non capace”, quando “non ci arriva”, quando insomma nemmeno l’impegno sembra bastare.

Ma perché non si prendono in considerazione anche altre variabili? Il fatto che la maggior parte delle scuole è bruttarella e poco funzionale, o che le classi sono affollate, o che in luoghi così affollati c’è meno disponibilità di ossigeno… Il fatto che ci sono tanti modi per fare lezione, adatti a persone con attitudini e stili cognitivi differenti, ma nella stragrande maggioranza dei casi si pratica solo la lezione frontale. Perché? Lockdown e pandemia ci hanno costretto ad affrontare alcuni di questi temi, di queste variabili, e forse ci siamo accorti che effettivamente qualcosa poteva essere cambiata; molto, però, in questo primo periodo post-pandemico, sta tornando esattamente com’era prima della pandemia.

Un simpatico gioco in cui vengono proposti edifici e bisogna indovinare se è una scuola o una prigione. Potete giocarci qua.

Una delle variabili che rimane sempre sullo sfondo, e che raramente viene presa in considerazione per capire se ci si possa provare a lavorare su, è quella del tempo: sia il tempo effettivo in cui si va a scuola – il calendario scolastico – sia il tempo che si può dedicare a un singolo argomento o a una singola competenza.

L’orario scolastico, le ore della giornata in cui si va a scuola, è quasi intoccabile. A scuola si va la mattina, abbastanza presto (quasi sempre alle 8, o alle 8:30), si sta tendenzialmente fino all’ora di pranzo, si esce, e poi in molti casi si torna a casa a studiare e fare i compiti, provando a incastrarli in mezzo alle altre attività, sportive, artistiche, sociali nei migliori dei casi, lavorative nei più complicati. Se uno studente la mattina è poco predisposto all’ascolto, affari suoi. Se uno studente il pomeriggio è troppo stanco per studiare, magari perché si è svegliato presto per andare a una scuola lontana da casa, affari suoi. Il tempo è questo e non si tocca. Qualche scuola, negli ultimi anni, ha iniziato a sperimentare orari di ingresso diversi, e i risultati sembrano essere molto incoraggianti.

A scuola, poi, si fanno sempre 4, 5, 6 ore consecutive, con in mezzo solo una o due pause di 10-15 minuti. In queste ore, compresse, si fanno 2, 3, 4 o anche 5 materie diverse, anche molto diverse: storia prima, matematica poi, disegno tecnico, biologia, educazione fisica. Può capitare che uno studente debba risolvere un’equazione di secondo grado, e 20 minuti dopo fare l’analisi di una poesia di Foscolo. Ovviamente, se l’ordinamento prevede un certo numero di materie, è normale che in una giornata si debbano fare più materie: ci limitiamo a sottolinearne l’effetto straniante e con ragioni poco pedagogiche. Infatti, gli orari vengono composti facendo i conti con la disponibilità dei professori e con gli incastri possibili tra le diverse classi. Anche in questo caso, esistono sperimentazioni che provano a giocare con questi limiti, e di solito danno esiti positivi o comunque interessanti, ma troppo spesso rimangono prive di qualsiasi seguito o di qualsiasi divulgazione ben fatta a livello nazionale.

Quello su cui però si potrebbe immediatamente incidere è il tempo da dedicare ad argomenti e competenze che si giudicano fondamentali. A scuola, ogni materia ha generalmente il suo tempo: in primo si fa generalmente questo, in secondo si fa questo, in terzo si fa quest’altro, ecc. C’è un tempo assoluto che procede di anno in anno e che prescinde delle competenze degli studenti, che vengono date per acquisite una volta passato l’anno. Non ho mai imparato le tabelline? Pazienza, noi in primo facciamo questo, le tabelline sono un problema tuo. Non so mettere in fila quattro parole scritte senza naufragare miseramente in frasi incomprensibili? Pazienza, siamo in quarto e dobbiamo fare il testo argomentativo, affari tuoi.

Potremmo pure accettarlo: sembra naturale pensare che in primo liceo non si possano nuovamente fare le tabelline. Sarebbe scandaloso, no? Non ci si ricorda, però, che è la stessa istituzione – in uno degli ordini precedenti – che non ha aiutato Marco o Giulia a imparare le tabelline. Magari, proprio perché anche all’epoca non c’era abbastanza tempo per soffermarcisi. L’istituzione che poi, qualche anno dopo, dice a Marco e Giulia che sono affari loro, che quelle cose avrebbero dovute impararle prima, e se non l’hanno fatto è colpa e problema loro.

Dobbiamo capire una cosa: ogni persona ha il proprio percorso di apprendimento, le sue peculiarità, i punti di forza, le debolezze. E per questo, a seconda della competenza o della nozione, ogni studente può aver bisogno di tempi diversi. Di fronte alla “lentezza” (cioè, detto meglio, di fronte ai differenti tempi di apprendimento delle diverse persone) la scuola si comporta in due modi: rimanda – i famosi “debiti”, come se per forza tutto si dovesse ridurre a un valore economico – e boccia, con tutta la delusione e la frustrazione che ne consegue; oppure fa finta di niente.

In questo ultimo caso, si fa vivacchiare lo studente, non si prendono in carico i suoi problemi, e così si accumulano le carenze, che diventano via via più difficili da recuperare durante il resto della carriera scolastica. Nel caso invece della bocciatura e dei debiti formativi il tempo viene effettivamente dato: se uno viene bocciato deve rifare tutto l’anno, interamente, come se lo stesse facendo per la prima volta. Quindi in realtà non c’è l’occasione per approfondire o colmare le carenze, ma è un secondo tentativo senza che venga modificato alcunché. Più fortunati, forse, sono gli studenti che hanno ricevuto un debito e hanno anche un programma specifico preparato dal docente: in quel caso non bisogna recuperare tutto, ma solo gli argomenti e le competenze in cui si è riscontrata più difficoltà. Approfittando, inoltre, del tempo estivo: tre mesi in cui legittimamente ci si riposa, ma in cui si potrebbero anche affrontare gli argomenti scolastici con più tranquillità e serenità, potendo gestirsi i tempi, potendo decidere in che momento della giornata e quando studiare, concentrandosi su poche cose, magari relative alla stessa materia o agli stessi argomenti.

Il discorso è che per alcune cose ci vuole tempo, e non considerare questo porta inevitabilmente a una recita più che a un percorso educativo. Prendiamo ad esempio la scrittura: uno dei lamenti continui sui giovani d’oggi è che non sanno scrivere. Gli stessi professori di italiano si lamentano che i giovani non sanno scrivere, e spesso i problemi partono dalle elementari e dalle medie. E quindi perché il professore di liceo dovrebbe occuparsene? Lo riguarda? Beh, qua crediamo che lo riguardi eccome, a meno che il compito dell’insegnamento dell’italiano sia affrontare determinate nozioni/competenze sull’italiano a seconda dell’anno, senza mai andare alla base del ruolo vero: insegnare a usare la lingua in diversi contesti.

E per migliorare in questa competenza serve mooolto più tempo di quello che viene usualmente dedicato a scuola: serve innanzitutto provare, tentare, serve essere corretti e imparare a correggersi, serve riprovare, essere nuovamente corretti e correggersi nuovamente, e così via. Non c’è un termine, una fine, nella problematizzazione e nel miglioramento della scrittura e del suo uso: di certo bisogna dedicarle più tempo, delle due, tre ore che gli vengono dedicate di tanto in tanto per qualche compito d’italiano, in cui lo studente penserà più al voto che a migliorare nel suo stile e nella sua capacità espressiva.

Lo stesso vale per le competenze matematiche e per imparare a usare la matematica: a volte, i programmi sembrano fatti apposta per saturare qualsiasi momento, impedire i tempi morti, le piste sbagliate, il rimuginare sulla pagina bianca. Cosa vuole la scuola da te? La scuola preferisce che tu mostri di aver appreso una nozione o un metodo, semplicemente riproponendolo, piuttosto che metterti nella situazione di farci qualcosa di nuovo, con quella nozione o con quel metodo. Questo scenario stravolgerebbe il rigido tempo scolastico. Perché sperimentare, provare, mettersi in gioco comporta anche l’insuccesso e il tempo “perso” – che perso non è, se viene usato per imparare a muoversi con i metodi e le nozioni apprese.

Sarà per questo che alla fine, da tutor e educatore, amo lo studio estivo: un tempo svincolato dalla burocrazia e dalla spesso rigida programmazione scolastica, in cui non ci sono voti e prove quotidiane, in cui c’è tanto tempo per colmare lacune e anche provare meraviglia di fronte ad argomenti che mai avremmo immaginato. Semplicemente, abbiamo più tempo da dedicargli: possiamo masticare e digerire meglio.

Augurando un passaggio dell’anno senza debiti a tutti i nostri studenti e le nostre studentesse, ricordo con piacere -ovviamente oggi, con tutti il senno di poi – l’anno in cui presi il debito in chimica: numeri di ossidazione, ossidoriduzioni, bilanciamenti e coefficienti stechiometrici erano per me inarrivabili e incomprensibili, nel corso dell’anno. Durante l’estate mi è sembrata una scemenza: dovevo fare solo quello, potevo dedicarmici quando volevo, potevo rimuginarci, potevo provare. Ho passato il debito senza problemi e ancora mi ricordo come si bilanciano le ossidoriduzioni. Tra i tanti argomenti scolastici, forse è quello a cui ho dedicato più tempo.

Stiamo difendendo la didattica in presenza o la didattica del controllo?

In questi mesi in cui la scuola è stata al centro di tanti e diversi dibattiti ho letto, ascoltato e osservato. La questione è per me tanto delicata quanto importante, e perciò mi sembrava che meritasse tutta la mia riflessione migliore, il mio tempo e la mia esperienza: non un’impressione, non una nostalgia, non un preconcetto. Sono stata a scuola, da precaria, come tante e tanti in questi giorni. Ho avuto paura per me, per la mia famiglia, per i miei amici e allo stesso tempo ho sentito le voci che da dietro i banchi supplicavano “no prof, speriamo di non tornare in Dad, che la Dad è un incubo”. Mi sembrava una questione impossibile da ricomporre.

Oggi però, una settimana dopo aver finito la mia supplenza, mi capita per le mani il regolamento che la scuola in cui insegnavo ha in vigore per la didattica a distanza: “La netiquette della DDI per docenti e studenti”.

Sospettavo che cose del genere (regolamenti per la Dad, didattica a distanza, o DDI, didattica digitale integrata, come preferite) esistessero, l’avevo un po’ annusato quando qualcuno durante una lezione a distanza, dalla sedia del proprio tavolo da pranzo, mi aveva chiesto il permesso di andare in bagno. Devo aver fatto una faccia stralunata, il mio tipico “eh?”, perché loro subito “eh prof, certo che dobbiamo chiedere il permesso di andare in bagno”. Lì per lì mi ero limitata a un cenno di “ok, fate come vi pare”, senza rendermi conto fino in fondo di cosa questo volesse dire.

Adesso l’ho capito meglio, anche grazie a questo regolamento, di cui sospetto esistano infinite varianti – ma tutte simili nella sostanza – in praticamente quasi tutte le scuole.

Quindi, cosa dice il regolamento?

Bene, la prima cosa fa un po’ ridere. Stabilisce infatti che «gli studenti si impegnano a frequentare le videolezioni in modo responsabile, consapevoli dell’occasione formativa bla bla bla». Non ci vuole un linguista per notare l’idiozia logica: se faccio un patto, qualcosa che ho contribuito a concordare, io mi posso impegnare (tipo il matrimonio), ma è quantomeno assurdo che si possa pretendere di impormi l’impegno attraverso un regolamento. Oltretutto «la partecipazione attiva e interessata è doverosa, come avviene nelle lezioni in presenza», per cui ingenuamente mi chiedo: può l’interesse essere doveroso? Sono minuzie linguistiche? Forse, ma il resto del testo è perfettamente coerente con questo presupposto: io scuola regolo e stabilisco, perché tu studente non sei in grado di partecipare attivamente e consapevolmente al processo educativo.

Passiamo ai punti successivi del regolamento, che possiamo così sintetizzare:

– puntualità e presenza;

– microfoni e videocamere sempre attivati;

– il telefono non va bene per seguire le lezioni ci vuole il computer o il tablet se non potete permettervelo ditelo alla scuola vi faremo avere un tablet in comodato;

– abbigliamento decoroso (sic);

– obbligatorio trovarsi in un luogo idoneo a seguire la lezione (sic sic);

– vietata la presenza di altre persone durante la lezione «per evitare disturbo o distrazione»;

– anche online vale il regolamento d’istituto;

– non si possono registrare audio, video o scattare foto (uso improprio è punito con sanzioni disciplinari e/o penali);

– i genitori devono vigilare;

– il mancato rispetto di suddette regole autorizza il consiglio di classe a una valutazione finale negativa nelle singole discipline.

Potrei commentare punto per punto (probabilmente sarebbe più divertente), ma provo a mettere insieme le cose con le riflessioni che mi rimbalzano in testa da qualche settimana ed enucleare alcuni punti critici.

1) Il cuore di tutto (che gente molto più studiata di me va dicendo da un po’) è che ci siamo approcciati alla Dad senza aver effettivamente consolidato alcuni fondamentali dell’educazione. Ne dico uno stupido e quasi mi vergogno a dirlo, ma mi pare che il problema sia proprio lì e quindi devo dirlo: gli studenti e le studentesse sono al centro del processo educativo, cioè sono protagonisti, cioè contano tutte le loro specificità.

Questo vuol dire che non è possibile pensare una scuola che non tenga conto del contesto familiare (mamma e papà lavorano, c’è nonna di là che ogni tanto chiama perché con il covid la badante non può venire più, e quindi tanto sto a casa in Dad, ci penso io, magari devo solo darle le medicine o un bicchiere d’acqua, ah no? non posso?), socioeconomico (divido la stanza con tre fratelli, in salotto c’è mia madre che fa smart working, mi metto in cucina anche se ogni tanto qualcuno magari viene a farsi il caffè e che problema sarà mai, magari rispolvera un attimo la prima catilinaria… ah no? non è possibile?), relazionale (ho una videocamera che è un cesso, stamattina mi sento un cesso, guarda che mega brufolo mi è venuto, oddio mo se devo accendere la videocamera passerò sei ore con la mano sulla fronte per nascondere il brufolo che se poco poco la tolgo magari mi screenshottano e mi fanno un meme che dura fino a giugno, vabbè magari se non la accendo la prof capisce….ah no? non posso?).

InkedWhatsApp Image 2020-11-10 at 15.16.46_LI

2) Conseguenza di questo considerarli esseri bidimensionali è che non vengono considerati ovviamente come persone degne di fiducia, né con cui vale spendere tempo e dialettica. Più semplice stabilire aprioristicamente che se hanno la videocamera spenta è perché stanno facendo altro (dormono, giocano, chattano, fanno dei tik tok) e che il loro unico obiettivo sia fregare i docenti (come, dopotutto, molti quotidiani nazionali non fanno che confermarci, ad esempio qua o qua). La mancanza totale di dialogo educativo genera mostri.

3) La disciplina, il decoro, l’autoritarismo. Sempre tornando al fatto che ci mancano evidentemente le basi, la Dad ha mostrato evidentemente la fallacia di alcune equazioni su cui abbiamo costruito la maggior parte dell’azione didattica. In molte di queste equazioni il primo termine è sempre il voto: con il voto possiamo esercitare il controllo, quindi ottenere attenzione, rispetto, autorevolezza e disciplina. L’altro termine è la presenza, sulla bocca di tutti, difesa a spada tratta perché – a quanto pare – presenza è condizione sufficiente a garantire il valore della relazione educativa. La presenza, certo, è importante ma – mi sentirei di aggiungere – se nella nostra equazione presenza=controllo, allora stiamo mettendo a rischio la sanità di tutti per difendere il panopticon. La presenza ha ancora un valore – e per fortuna quello non possiamo toglierglielo – nella relazione tra pari (e infatti se qualcuno li ascoltasse è quello che ti dicono “mi manca pazzeggiare nel cambio di lezione”, “sbirciare la compagna di banco”, “scambiarci sguardi d’intesa quando la prof si impiccia con la lim”), ma se continuiamo a proporre un’azione educativa monodirezionale la presenza non ha davvero nessun valore.

Ed ecco allora che dobbiamo ricorrere ai regolamenti, ecco che arrivano le foto delle interrogazioni da bendati, i tour della stanza per controllare che non ci siano genitori apprensivi pronti a suggerire da sotto il letto (non mi metto a parlare di autovalutazione che magari a qualcuno potrebbero sanguinare le orecchie).

Quello che mi sconvolge è questo: possibile che se mi tolgono il controllo e il voto non riesco più a esercitare il mestiere del docente?

Questo è quello che mi aspetterei di leggere su un giornale. Perché è la notizia più grave che si possa dare oggi sulla scuola, mi pare.

Ho fatto la Dad, o DDI, anche io. Me ne stavo in camera mia (che quella sola ho), ogni tanto i coinquilini mi allungavano il caffè, spesso stavo in tuta, o ancora con il pigiama sotto. Alla prima ora ci davamo il buongiorno, scherzando sul fatto che qualcuno avesse la videocamera spenta perché era sulla tazza del water, o perché era ancora in pigiama. Chi faceva colazione, chi si stiracchiava, chi aveva ancora il letto sfatto (ora mi chiedo: avrei dovuto chiedergli di rifare il letto, per il decoro dell’ambiente in cui si svolgeva la chiamata?). Qualcuno si collegava qualche minuto prima, che sapeva di trovarmi, per poter fare due chiacchiere privatamente, mostrarmi la collezione di palloni della AS Roma. C’era un clima familiare, che almeno non era alienante.

Quando il gatto è saltato sulla scrivania in molti hanno acceso la videocamera per mostrare i propri animali domestici (anche un coniglio tenerissimo). Quando abbiamo letto a tre voci un racconto di Marquez in molti stavano stesi a letto, e semplicemente ascoltavano, poi alla fine ne abbiamo parlato tutti insieme. Per la prima volta mi sono accorta che avevano seguito tutti, anche se le videocamere erano spente.

Lo ammetto, non è facile non vedere le reazioni sui loro volti, non ho quel feedback che mi dice se mi stanno seguendo, se magari in qualcosa non sono stata chiara. Però ne ho parlato con loro, gli ho detto che del pigiama non me ne frega niente, che capisco la vergogna ad accendere la webcam, gli ho spiegato perché mi sarebbe piaciuto vederli: per associare nomi e volti, per ricordarmeli meglio, per vederli sorridere, insomma non perché volevo controllarli.

Comunque, ne abbiamo parlato e ho lasciato che fossero loro a scegliere. Ognuno si è sentito libero, e quasi tutte e tutti hanno sempre partecipato. Ah sì, gli ho detto che se facevano dei meme su di me mi avrebbe divertito vederli, a patto che non fossero violenti o degradanti del mio essere donna e persona. Non me ne hanno mandati, quindi l’ho fatto io, come da immagine in allegato.

Ho anche interrogato, ma questa è un’altra storia che magari vi racconto in un altro pippone.

Didattica a Distanza uno a uno

Come tutti quelli che hanno a che fare con l’educazione, anche noi ci siamo trovati a dover affrontare, all’improvviso, una situazione nuova. In queste settimane tanto è stato scritto sulla didattica online, sull’impegno degli e delle insegnanti, sulle carenze del nostro sistema scolastico, sugli strumenti, sulla difficoltà, in tanti contesti, di poter fare lezione.

Nulla è invece stato detto su un’altra forma di insegnamento che ogni giorno aiuta moltissimi studenti ad affrontare il proprio percorso scolastico e formativo in senso lato: l’insegnamento uno a uno, o in altre parole, le “ripetizioni”. E allora, visto che questo è l’ambito in cui siamo esperti, vorremmo condividere con voi (insegnanti, genitori e alunni) alcune considerazioni sulla didattica a distanza uno a uno, mettendo in risalto proprio quegli aspetti relazionali e personali che purtroppo, nel contesto classe, vengono spesso trascurati, per limiti principalmente strutturali e a maggior ragione in questi giorni in cui la didattica è affidata a una comunicazione spesso precaria.

La persona, innanzitutto

Uno dei vantaggi dell’insegnamento uno a uno è il potersi concentrare su un approccio relazionale e quindi sul benessere degli studenti e delle studentesse. Il mezzo digitale, che in questi giorni di quarantena è l’unica cosa che tiene noi e i nostri studenti connessi al mondo esterno, è fortemente carente riguardo a quella possibilità intima di calore umano e di empatia che dà profondità alle relazioni educative e rende l’apprendimento significativo. Per questo motivo, è importante cercare di compensare questa assenza fisica con una maggiore presenza emotiva.

Innanzitutto, è importante chiedere, sempre, ai ragazzi e alle ragazze come stanno, cosa sentono, come trascorrono le loro giornate, come vivono la “familiarità forzata”, se riescono a studiare, a concentrarsi, a rilassarsi, a svagarsi, se hanno un luogo in cui rifugiarsi, in cui sfogarsi. Non sottovalutiamo il loro stato mentale ed emotivo: ripensiamo a cosa avrebbe significato per noi adulti, a 15 anni, trascorrere venti giorni in casa con genitori e fratelli, magari senza avere una stanza solo per noi. Quindi, per prima cosa, è importante prendersi più tempo per parlare con tranquillità, per la semplice chiacchiera, e soprattutto per l’ascolto. È anche l’occasione per aprirsi un po’ con gli studenti, magari facendogli vedere la nostra casa, la nostra stanza, gli oggetti a cui teniamo o le passioni che condividiamo con loro (chitarra, libri, CD, fumetti, ecc.): tendenzialmente sono curiosi di sapere di più sull’insegnante, e questo può facilitare la relazione.

Stavi guardando Youtube o era la tua sorellina che urlava?

Anche se l’assenza di spostamenti, di fatto, alleggerisce il lavoro, questo alleggerimento è compensato da uno sforzo maggiore nell’attività di insegnamento: inutile prendersi in giro, insegnare a distanza è più faticoso e richiede più concentrazione. È infatti facile distrarsi a casa, al computer, per gli insegnanti e per gli studenti, e a volte è difficile capirlo, visto che online abbiamo meno informazioni sul contesto (psicofisico e ambientale) dello studente. Laudes ha due sedi, e molte delle lezioni avvengono in sede: chi non fa lezione a domicilio cosa sa dell’ambiente domestico degli studenti? Hanno una scrivania, condividono la stanza con fratelli o sorelle, ci sono neonati urlanti, genitori che interrompono ogni cinque minuti? E allora, naturalmente con discrezione e senza essere invadenti, possiamo chiedergli di accompagnarci, nella loro quotidianità, aiutandoli, magari a trovare anche in casa loro uno spazio di apprendimento.

Il miraggio del 6 politico

Anche in presenza, il problema dello studio – almeno in 3 casi su 4 – è la motivazione. Ecco, in questo momento, in cui c’è una forte incertezza per quel che riguarda il futuro dell’anno scolastico, alcuni studenti possono avere difficoltà nel trovare la spinta giusta.

Per alcuni, in realtà, l’allentamento degli obblighi e dello stress scolastico può creare una buona situazione per l’apprendimento e bisogna sfruttarla: alcuni nostri studenti non sono mai stati così concentrati, attivi e propositivi come in questo periodo.

Per altri, l’interrogazione o il compito sono i principali motori dello studio, e ora sembrano assai remoti o, magari, possono essere svolti on line con il libro comodamente davanti: perché mai dovrebbero studiare? Ci siamo posti questa domanda in tanti e diversi modi nel corso degli anni, ben prima di tutte le questioni connesse alla mediazione digitale. La risposta che ci siamo dati è che la motivazione consegue principalmente a una scelta personale e a un’adesione interna; non possiamo immaginare di avere un’unica carota da sventolare davanti a tutti. Quello che possiamo fare, però, è da una parte agevolare il processo maieutico che favorisce la motivazione (come? parlando e ascoltando, ovviamente), dall’altra rendere lo studio interessante, avvincente e – non dimentichiamolo mai – sfidante. La sfida, quando calibrata per non essere troppo semplice né frustrante, è la migliore alleata dell’apprendimento. Per fare tutto questo, però, è necessario uno sforzo ulteriore nella preparazione e/o nella conduzione degli incontri educativi. Uno sforzo creativo.

Distance learning

Parlo io parli tu?

Tutto ciò che abbiamo scritto, lo sappiamo bene, deve confrontarsi con la realtà materiale dei fatti: connessioni che sfarfallano, tecnologia non sempre performante, installa quel programma, apri i compiti sul registro, mandami le foto del libro, etc. Non vogliamo ora soffermarci sugli strumenti migliori, magari dedicheremo un altro post a questo, ma intanto ci sono alcune questioni di ordine generale. Innanzitutto, anche se sembrerà banale dirlo, bisognerebbe evitare il più possibile di usare il solo audio: il contatto visivo, anche quello più sgranato, è comunque funzionale alla comunicazione e all’attenzione. Anche il telefono, per lo schermo piccolo e le ridotte funzionalità su certe piattaforme, è uno strumento da usare solo quando non ci siano altre possibilità. Cerchiamo sempre di parlare lentamente, separando le parole e scandendole bene, per compensare i piccoli disturbi della linea. È anche importante, sempre per quanto riguarda i disturbi del canale, fare attenzione nella gestione del turno di parola: la sovrapposizione digitale è molto più antipatica di quella analogica, in presenza. Poi, farsi trovare pronti e preparati è una manifestazione evidente della cura che abbiamo per la relazione. È utile sapere, con un po’ di anticipo, che argomento dovranno affrontare, quali compiti devono fare (magari facendoseli mandare prima), insomma bisogna cercare di avere prima della lezione tutti i dati di cui abbiamo bisogno per essere preparati, scegliere accuratamente gli strumenti adatti e far filare l’incontro il più liscio possibile. Inoltre, è importante, per quanto possibile, fare anche attenzione al setting in cui si condurrà la lezione, l’ambiente che ci circonda e che comparirà sullo schermo dello studente: curare le luci e cosa abbiamo dietro di noi. È piacevole ascoltare un insegnante che parla con un muro bianco dietro, nell’oscurità?

Poi, un’ultima premura: probabilmente gli studenti usano già alcuni strumenti e piattaforme per la scuola, perciò bisognerebbe evitare di chiedere loro di moltiplicare gli accessi, rischiando così di indurli in una confusione maggiore. Chiediamo loro cosa già conoscono e sanno usare, mediando rispetto alle nostre esigenze. Non dimentichiamo anche che tutte le competenze digitali che siamo o saremo in grado di fargli acquisire in questo momento sono competenze spendibili in altri contesti e che quindi costituiscono una parte importante della nostra azione educativa.

Stare seduti è stancante

Last but not the least, le lezioni on line, per tutti questi motivi, sono spesso più stancanti per i docenti, quindi consigliamo di prendere almeno 15 minuti di pausa tra l’una e l’altra. Ma sono stancanti anche per gli studenti, che magari già stanno seguendo numerose videolezioni di fronte allo schermo: vista l’assenza di perdite di tempo legate agli spostamenti, sempre valutando bene da caso a caso, si può rimodulare la durata degli incontri: due ore consecutive? Due lezioni da un’ora l’una in due diversi pomeriggi della settimana? Tre lezioni da mezz’ora? Un supporto costante per 20 minuti al giorno? A voi, insegnanti e studenti, la valutazione!

Paulo Freire – L’umiltà dell’insegnante

“Io penso che un insegnante che si glori di sé stesso, che prenda le distanza dall’alunno, come se si sentisse un sole che illumina l’allievo senza luce, anche se è competente nella sua materia, dimostra di essere incompetente dal punto di vista umano”.

Paulo Freire (Recife 1921 – San Paolo 1997) è stato un grande educatore pedagogista brasiliano, autore di importanti testi come “La pedagogia degli oppressi” e “L’educazione come pratica della libertà”.

L’intervista completa “Le virtù dell’insegnante”, in cui Freire si sofferma su alcune delle qualità che dovrebbe avere un educatore, la potete trovere sul sito di Rai Scuola.