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Il tempo e la scuola

La scuola sembra essere l’unico luogo in cui il contesto non è rilevante.

Qual è il contesto di cui parlo? Tutto quello che c’è attorno all’attività scolastica: i luoghi in cui avviene; il tempo in cui avviene e quello che le si dedica; le persone coinvolte nell’attività, con le loro caratteristiche e le loro peculiarità. Tutto questo raramente viene considerato, a scuola. Quasi sempre, si preferisce correlare gli esiti dello studio e della crescita alla responsabilità individuale: se si hanno carenze, in matematica o in italiano, è perché “si è impegnata poco”, perché “non ha studiato abbastanza”, per non parlare di giudizi più radicali e definitivi, “casi disperati” e “studenti irrecuperabili”. L’impegno sembra essere l’unica variabile presa in considerazione. Tutta la responsabilità è dello studente, paradossalmente anche quando viene ritenuto “non capace”, quando “non ci arriva”, quando insomma nemmeno l’impegno sembra bastare.

Ma perché non si prendono in considerazione anche altre variabili? Il fatto che la maggior parte delle scuole è bruttarella e poco funzionale, o che le classi sono affollate, o che in luoghi così affollati c’è meno disponibilità di ossigeno… Il fatto che ci sono tanti modi per fare lezione, adatti a persone con attitudini e stili cognitivi differenti, ma nella stragrande maggioranza dei casi si pratica solo la lezione frontale. Perché? Lockdown e pandemia ci hanno costretto ad affrontare alcuni di questi temi, di queste variabili, e forse ci siamo accorti che effettivamente qualcosa poteva essere cambiata; molto, però, in questo primo periodo post-pandemico, sta tornando esattamente com’era prima della pandemia.

Un simpatico gioco in cui vengono proposti edifici e bisogna indovinare se è una scuola o una prigione. Potete giocarci qua.

Una delle variabili che rimane sempre sullo sfondo, e che raramente viene presa in considerazione per capire se ci si possa provare a lavorare su, è quella del tempo: sia il tempo effettivo in cui si va a scuola – il calendario scolastico – sia il tempo che si può dedicare a un singolo argomento o a una singola competenza.

L’orario scolastico, le ore della giornata in cui si va a scuola, è quasi intoccabile. A scuola si va la mattina, abbastanza presto (quasi sempre alle 8, o alle 8:30), si sta tendenzialmente fino all’ora di pranzo, si esce, e poi in molti casi si torna a casa a studiare e fare i compiti, provando a incastrarli in mezzo alle altre attività, sportive, artistiche, sociali nei migliori dei casi, lavorative nei più complicati. Se uno studente la mattina è poco predisposto all’ascolto, affari suoi. Se uno studente il pomeriggio è troppo stanco per studiare, magari perché si è svegliato presto per andare a una scuola lontana da casa, affari suoi. Il tempo è questo e non si tocca. Qualche scuola, negli ultimi anni, ha iniziato a sperimentare orari di ingresso diversi, e i risultati sembrano essere molto incoraggianti.

A scuola, poi, si fanno sempre 4, 5, 6 ore consecutive, con in mezzo solo una o due pause di 10-15 minuti. In queste ore, compresse, si fanno 2, 3, 4 o anche 5 materie diverse, anche molto diverse: storia prima, matematica poi, disegno tecnico, biologia, educazione fisica. Può capitare che uno studente debba risolvere un’equazione di secondo grado, e 20 minuti dopo fare l’analisi di una poesia di Foscolo. Ovviamente, se l’ordinamento prevede un certo numero di materie, è normale che in una giornata si debbano fare più materie: ci limitiamo a sottolinearne l’effetto straniante e con ragioni poco pedagogiche. Infatti, gli orari vengono composti facendo i conti con la disponibilità dei professori e con gli incastri possibili tra le diverse classi. Anche in questo caso, esistono sperimentazioni che provano a giocare con questi limiti, e di solito danno esiti positivi o comunque interessanti, ma troppo spesso rimangono prive di qualsiasi seguito o di qualsiasi divulgazione ben fatta a livello nazionale.

Quello su cui però si potrebbe immediatamente incidere è il tempo da dedicare ad argomenti e competenze che si giudicano fondamentali. A scuola, ogni materia ha generalmente il suo tempo: in primo si fa generalmente questo, in secondo si fa questo, in terzo si fa quest’altro, ecc. C’è un tempo assoluto che procede di anno in anno e che prescinde delle competenze degli studenti, che vengono date per acquisite una volta passato l’anno. Non ho mai imparato le tabelline? Pazienza, noi in primo facciamo questo, le tabelline sono un problema tuo. Non so mettere in fila quattro parole scritte senza naufragare miseramente in frasi incomprensibili? Pazienza, siamo in quarto e dobbiamo fare il testo argomentativo, affari tuoi.

Potremmo pure accettarlo: sembra naturale pensare che in primo liceo non si possano nuovamente fare le tabelline. Sarebbe scandaloso, no? Non ci si ricorda, però, che è la stessa istituzione – in uno degli ordini precedenti – che non ha aiutato Marco o Giulia a imparare le tabelline. Magari, proprio perché anche all’epoca non c’era abbastanza tempo per soffermarcisi. L’istituzione che poi, qualche anno dopo, dice a Marco e Giulia che sono affari loro, che quelle cose avrebbero dovute impararle prima, e se non l’hanno fatto è colpa e problema loro.

Dobbiamo capire una cosa: ogni persona ha il proprio percorso di apprendimento, le sue peculiarità, i punti di forza, le debolezze. E per questo, a seconda della competenza o della nozione, ogni studente può aver bisogno di tempi diversi. Di fronte alla “lentezza” (cioè, detto meglio, di fronte ai differenti tempi di apprendimento delle diverse persone) la scuola si comporta in due modi: rimanda – i famosi “debiti”, come se per forza tutto si dovesse ridurre a un valore economico – e boccia, con tutta la delusione e la frustrazione che ne consegue; oppure fa finta di niente.

In questo ultimo caso, si fa vivacchiare lo studente, non si prendono in carico i suoi problemi, e così si accumulano le carenze, che diventano via via più difficili da recuperare durante il resto della carriera scolastica. Nel caso invece della bocciatura e dei debiti formativi il tempo viene effettivamente dato: se uno viene bocciato deve rifare tutto l’anno, interamente, come se lo stesse facendo per la prima volta. Quindi in realtà non c’è l’occasione per approfondire o colmare le carenze, ma è un secondo tentativo senza che venga modificato alcunché. Più fortunati, forse, sono gli studenti che hanno ricevuto un debito e hanno anche un programma specifico preparato dal docente: in quel caso non bisogna recuperare tutto, ma solo gli argomenti e le competenze in cui si è riscontrata più difficoltà. Approfittando, inoltre, del tempo estivo: tre mesi in cui legittimamente ci si riposa, ma in cui si potrebbero anche affrontare gli argomenti scolastici con più tranquillità e serenità, potendo gestirsi i tempi, potendo decidere in che momento della giornata e quando studiare, concentrandosi su poche cose, magari relative alla stessa materia o agli stessi argomenti.

Il discorso è che per alcune cose ci vuole tempo, e non considerare questo porta inevitabilmente a una recita più che a un percorso educativo. Prendiamo ad esempio la scrittura: uno dei lamenti continui sui giovani d’oggi è che non sanno scrivere. Gli stessi professori di italiano si lamentano che i giovani non sanno scrivere, e spesso i problemi partono dalle elementari e dalle medie. E quindi perché il professore di liceo dovrebbe occuparsene? Lo riguarda? Beh, qua crediamo che lo riguardi eccome, a meno che il compito dell’insegnamento dell’italiano sia affrontare determinate nozioni/competenze sull’italiano a seconda dell’anno, senza mai andare alla base del ruolo vero: insegnare a usare la lingua in diversi contesti.

E per migliorare in questa competenza serve mooolto più tempo di quello che viene usualmente dedicato a scuola: serve innanzitutto provare, tentare, serve essere corretti e imparare a correggersi, serve riprovare, essere nuovamente corretti e correggersi nuovamente, e così via. Non c’è un termine, una fine, nella problematizzazione e nel miglioramento della scrittura e del suo uso: di certo bisogna dedicarle più tempo, delle due, tre ore che gli vengono dedicate di tanto in tanto per qualche compito d’italiano, in cui lo studente penserà più al voto che a migliorare nel suo stile e nella sua capacità espressiva.

Lo stesso vale per le competenze matematiche e per imparare a usare la matematica: a volte, i programmi sembrano fatti apposta per saturare qualsiasi momento, impedire i tempi morti, le piste sbagliate, il rimuginare sulla pagina bianca. Cosa vuole la scuola da te? La scuola preferisce che tu mostri di aver appreso una nozione o un metodo, semplicemente riproponendolo, piuttosto che metterti nella situazione di farci qualcosa di nuovo, con quella nozione o con quel metodo. Questo scenario stravolgerebbe il rigido tempo scolastico. Perché sperimentare, provare, mettersi in gioco comporta anche l’insuccesso e il tempo “perso” – che perso non è, se viene usato per imparare a muoversi con i metodi e le nozioni apprese.

Sarà per questo che alla fine, da tutor e educatore, amo lo studio estivo: un tempo svincolato dalla burocrazia e dalla spesso rigida programmazione scolastica, in cui non ci sono voti e prove quotidiane, in cui c’è tanto tempo per colmare lacune e anche provare meraviglia di fronte ad argomenti che mai avremmo immaginato. Semplicemente, abbiamo più tempo da dedicargli: possiamo masticare e digerire meglio.

Augurando un passaggio dell’anno senza debiti a tutti i nostri studenti e le nostre studentesse, ricordo con piacere -ovviamente oggi, con tutti il senno di poi – l’anno in cui presi il debito in chimica: numeri di ossidazione, ossidoriduzioni, bilanciamenti e coefficienti stechiometrici erano per me inarrivabili e incomprensibili, nel corso dell’anno. Durante l’estate mi è sembrata una scemenza: dovevo fare solo quello, potevo dedicarmici quando volevo, potevo rimuginarci, potevo provare. Ho passato il debito senza problemi e ancora mi ricordo come si bilanciano le ossidoriduzioni. Tra i tanti argomenti scolastici, forse è quello a cui ho dedicato più tempo.

Stiamo difendendo la didattica in presenza o la didattica del controllo?

In questi mesi in cui la scuola è stata al centro di tanti e diversi dibattiti ho letto, ascoltato e osservato. La questione è per me tanto delicata quanto importante, e perciò mi sembrava che meritasse tutta la mia riflessione migliore, il mio tempo e la mia esperienza: non un’impressione, non una nostalgia, non un preconcetto. Sono stata a scuola, da precaria, come tante e tanti in questi giorni. Ho avuto paura per me, per la mia famiglia, per i miei amici e allo stesso tempo ho sentito le voci che da dietro i banchi supplicavano “no prof, speriamo di non tornare in Dad, che la Dad è un incubo”. Mi sembrava una questione impossibile da ricomporre.

Oggi però, una settimana dopo aver finito la mia supplenza, mi capita per le mani il regolamento che la scuola in cui insegnavo ha in vigore per la didattica a distanza: “La netiquette della DDI per docenti e studenti”.

Sospettavo che cose del genere (regolamenti per la Dad, didattica a distanza, o DDI, didattica digitale integrata, come preferite) esistessero, l’avevo un po’ annusato quando qualcuno durante una lezione a distanza, dalla sedia del proprio tavolo da pranzo, mi aveva chiesto il permesso di andare in bagno. Devo aver fatto una faccia stralunata, il mio tipico “eh?”, perché loro subito “eh prof, certo che dobbiamo chiedere il permesso di andare in bagno”. Lì per lì mi ero limitata a un cenno di “ok, fate come vi pare”, senza rendermi conto fino in fondo di cosa questo volesse dire.

Adesso l’ho capito meglio, anche grazie a questo regolamento, di cui sospetto esistano infinite varianti – ma tutte simili nella sostanza – in praticamente quasi tutte le scuole.

Quindi, cosa dice il regolamento?

Bene, la prima cosa fa un po’ ridere. Stabilisce infatti che «gli studenti si impegnano a frequentare le videolezioni in modo responsabile, consapevoli dell’occasione formativa bla bla bla». Non ci vuole un linguista per notare l’idiozia logica: se faccio un patto, qualcosa che ho contribuito a concordare, io mi posso impegnare (tipo il matrimonio), ma è quantomeno assurdo che si possa pretendere di impormi l’impegno attraverso un regolamento. Oltretutto «la partecipazione attiva e interessata è doverosa, come avviene nelle lezioni in presenza», per cui ingenuamente mi chiedo: può l’interesse essere doveroso? Sono minuzie linguistiche? Forse, ma il resto del testo è perfettamente coerente con questo presupposto: io scuola regolo e stabilisco, perché tu studente non sei in grado di partecipare attivamente e consapevolmente al processo educativo.

Passiamo ai punti successivi del regolamento, che possiamo così sintetizzare:

– puntualità e presenza;

– microfoni e videocamere sempre attivati;

– il telefono non va bene per seguire le lezioni ci vuole il computer o il tablet se non potete permettervelo ditelo alla scuola vi faremo avere un tablet in comodato;

– abbigliamento decoroso (sic);

– obbligatorio trovarsi in un luogo idoneo a seguire la lezione (sic sic);

– vietata la presenza di altre persone durante la lezione «per evitare disturbo o distrazione»;

– anche online vale il regolamento d’istituto;

– non si possono registrare audio, video o scattare foto (uso improprio è punito con sanzioni disciplinari e/o penali);

– i genitori devono vigilare;

– il mancato rispetto di suddette regole autorizza il consiglio di classe a una valutazione finale negativa nelle singole discipline.

Potrei commentare punto per punto (probabilmente sarebbe più divertente), ma provo a mettere insieme le cose con le riflessioni che mi rimbalzano in testa da qualche settimana ed enucleare alcuni punti critici.

1) Il cuore di tutto (che gente molto più studiata di me va dicendo da un po’) è che ci siamo approcciati alla Dad senza aver effettivamente consolidato alcuni fondamentali dell’educazione. Ne dico uno stupido e quasi mi vergogno a dirlo, ma mi pare che il problema sia proprio lì e quindi devo dirlo: gli studenti e le studentesse sono al centro del processo educativo, cioè sono protagonisti, cioè contano tutte le loro specificità.

Questo vuol dire che non è possibile pensare una scuola che non tenga conto del contesto familiare (mamma e papà lavorano, c’è nonna di là che ogni tanto chiama perché con il covid la badante non può venire più, e quindi tanto sto a casa in Dad, ci penso io, magari devo solo darle le medicine o un bicchiere d’acqua, ah no? non posso?), socioeconomico (divido la stanza con tre fratelli, in salotto c’è mia madre che fa smart working, mi metto in cucina anche se ogni tanto qualcuno magari viene a farsi il caffè e che problema sarà mai, magari rispolvera un attimo la prima catilinaria… ah no? non è possibile?), relazionale (ho una videocamera che è un cesso, stamattina mi sento un cesso, guarda che mega brufolo mi è venuto, oddio mo se devo accendere la videocamera passerò sei ore con la mano sulla fronte per nascondere il brufolo che se poco poco la tolgo magari mi screenshottano e mi fanno un meme che dura fino a giugno, vabbè magari se non la accendo la prof capisce….ah no? non posso?).

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2) Conseguenza di questo considerarli esseri bidimensionali è che non vengono considerati ovviamente come persone degne di fiducia, né con cui vale spendere tempo e dialettica. Più semplice stabilire aprioristicamente che se hanno la videocamera spenta è perché stanno facendo altro (dormono, giocano, chattano, fanno dei tik tok) e che il loro unico obiettivo sia fregare i docenti (come, dopotutto, molti quotidiani nazionali non fanno che confermarci, ad esempio qua o qua). La mancanza totale di dialogo educativo genera mostri.

3) La disciplina, il decoro, l’autoritarismo. Sempre tornando al fatto che ci mancano evidentemente le basi, la Dad ha mostrato evidentemente la fallacia di alcune equazioni su cui abbiamo costruito la maggior parte dell’azione didattica. In molte di queste equazioni il primo termine è sempre il voto: con il voto possiamo esercitare il controllo, quindi ottenere attenzione, rispetto, autorevolezza e disciplina. L’altro termine è la presenza, sulla bocca di tutti, difesa a spada tratta perché – a quanto pare – presenza è condizione sufficiente a garantire il valore della relazione educativa. La presenza, certo, è importante ma – mi sentirei di aggiungere – se nella nostra equazione presenza=controllo, allora stiamo mettendo a rischio la sanità di tutti per difendere il panopticon. La presenza ha ancora un valore – e per fortuna quello non possiamo toglierglielo – nella relazione tra pari (e infatti se qualcuno li ascoltasse è quello che ti dicono “mi manca pazzeggiare nel cambio di lezione”, “sbirciare la compagna di banco”, “scambiarci sguardi d’intesa quando la prof si impiccia con la lim”), ma se continuiamo a proporre un’azione educativa monodirezionale la presenza non ha davvero nessun valore.

Ed ecco allora che dobbiamo ricorrere ai regolamenti, ecco che arrivano le foto delle interrogazioni da bendati, i tour della stanza per controllare che non ci siano genitori apprensivi pronti a suggerire da sotto il letto (non mi metto a parlare di autovalutazione che magari a qualcuno potrebbero sanguinare le orecchie).

Quello che mi sconvolge è questo: possibile che se mi tolgono il controllo e il voto non riesco più a esercitare il mestiere del docente?

Questo è quello che mi aspetterei di leggere su un giornale. Perché è la notizia più grave che si possa dare oggi sulla scuola, mi pare.

Ho fatto la Dad, o DDI, anche io. Me ne stavo in camera mia (che quella sola ho), ogni tanto i coinquilini mi allungavano il caffè, spesso stavo in tuta, o ancora con il pigiama sotto. Alla prima ora ci davamo il buongiorno, scherzando sul fatto che qualcuno avesse la videocamera spenta perché era sulla tazza del water, o perché era ancora in pigiama. Chi faceva colazione, chi si stiracchiava, chi aveva ancora il letto sfatto (ora mi chiedo: avrei dovuto chiedergli di rifare il letto, per il decoro dell’ambiente in cui si svolgeva la chiamata?). Qualcuno si collegava qualche minuto prima, che sapeva di trovarmi, per poter fare due chiacchiere privatamente, mostrarmi la collezione di palloni della AS Roma. C’era un clima familiare, che almeno non era alienante.

Quando il gatto è saltato sulla scrivania in molti hanno acceso la videocamera per mostrare i propri animali domestici (anche un coniglio tenerissimo). Quando abbiamo letto a tre voci un racconto di Marquez in molti stavano stesi a letto, e semplicemente ascoltavano, poi alla fine ne abbiamo parlato tutti insieme. Per la prima volta mi sono accorta che avevano seguito tutti, anche se le videocamere erano spente.

Lo ammetto, non è facile non vedere le reazioni sui loro volti, non ho quel feedback che mi dice se mi stanno seguendo, se magari in qualcosa non sono stata chiara. Però ne ho parlato con loro, gli ho detto che del pigiama non me ne frega niente, che capisco la vergogna ad accendere la webcam, gli ho spiegato perché mi sarebbe piaciuto vederli: per associare nomi e volti, per ricordarmeli meglio, per vederli sorridere, insomma non perché volevo controllarli.

Comunque, ne abbiamo parlato e ho lasciato che fossero loro a scegliere. Ognuno si è sentito libero, e quasi tutte e tutti hanno sempre partecipato. Ah sì, gli ho detto che se facevano dei meme su di me mi avrebbe divertito vederli, a patto che non fossero violenti o degradanti del mio essere donna e persona. Non me ne hanno mandati, quindi l’ho fatto io, come da immagine in allegato.

Ho anche interrogato, ma questa è un’altra storia che magari vi racconto in un altro pippone.

Didattica a Distanza uno a uno

Come tutti quelli che hanno a che fare con l’educazione, anche noi ci siamo trovati a dover affrontare, all’improvviso, una situazione nuova. In queste settimane tanto è stato scritto sulla didattica online, sull’impegno degli e delle insegnanti, sulle carenze del nostro sistema scolastico, sugli strumenti, sulla difficoltà, in tanti contesti, di poter fare lezione.

Nulla è invece stato detto su un’altra forma di insegnamento che ogni giorno aiuta moltissimi studenti ad affrontare il proprio percorso scolastico e formativo in senso lato: l’insegnamento uno a uno, o in altre parole, le “ripetizioni”. E allora, visto che questo è l’ambito in cui siamo esperti, vorremmo condividere con voi (insegnanti, genitori e alunni) alcune considerazioni sulla didattica a distanza uno a uno, mettendo in risalto proprio quegli aspetti relazionali e personali che purtroppo, nel contesto classe, vengono spesso trascurati, per limiti principalmente strutturali e a maggior ragione in questi giorni in cui la didattica è affidata a una comunicazione spesso precaria.

La persona, innanzitutto

Uno dei vantaggi dell’insegnamento uno a uno è il potersi concentrare su un approccio relazionale e quindi sul benessere degli studenti e delle studentesse. Il mezzo digitale, che in questi giorni di quarantena è l’unica cosa che tiene noi e i nostri studenti connessi al mondo esterno, è fortemente carente riguardo a quella possibilità intima di calore umano e di empatia che dà profondità alle relazioni educative e rende l’apprendimento significativo. Per questo motivo, è importante cercare di compensare questa assenza fisica con una maggiore presenza emotiva.

Innanzitutto, è importante chiedere, sempre, ai ragazzi e alle ragazze come stanno, cosa sentono, come trascorrono le loro giornate, come vivono la “familiarità forzata”, se riescono a studiare, a concentrarsi, a rilassarsi, a svagarsi, se hanno un luogo in cui rifugiarsi, in cui sfogarsi. Non sottovalutiamo il loro stato mentale ed emotivo: ripensiamo a cosa avrebbe significato per noi adulti, a 15 anni, trascorrere venti giorni in casa con genitori e fratelli, magari senza avere una stanza solo per noi. Quindi, per prima cosa, è importante prendersi più tempo per parlare con tranquillità, per la semplice chiacchiera, e soprattutto per l’ascolto. È anche l’occasione per aprirsi un po’ con gli studenti, magari facendogli vedere la nostra casa, la nostra stanza, gli oggetti a cui teniamo o le passioni che condividiamo con loro (chitarra, libri, CD, fumetti, ecc.): tendenzialmente sono curiosi di sapere di più sull’insegnante, e questo può facilitare la relazione.

Stavi guardando Youtube o era la tua sorellina che urlava?

Anche se l’assenza di spostamenti, di fatto, alleggerisce il lavoro, questo alleggerimento è compensato da uno sforzo maggiore nell’attività di insegnamento: inutile prendersi in giro, insegnare a distanza è più faticoso e richiede più concentrazione. È infatti facile distrarsi a casa, al computer, per gli insegnanti e per gli studenti, e a volte è difficile capirlo, visto che online abbiamo meno informazioni sul contesto (psicofisico e ambientale) dello studente. Laudes ha due sedi, e molte delle lezioni avvengono in sede: chi non fa lezione a domicilio cosa sa dell’ambiente domestico degli studenti? Hanno una scrivania, condividono la stanza con fratelli o sorelle, ci sono neonati urlanti, genitori che interrompono ogni cinque minuti? E allora, naturalmente con discrezione e senza essere invadenti, possiamo chiedergli di accompagnarci, nella loro quotidianità, aiutandoli, magari a trovare anche in casa loro uno spazio di apprendimento.

Il miraggio del 6 politico

Anche in presenza, il problema dello studio – almeno in 3 casi su 4 – è la motivazione. Ecco, in questo momento, in cui c’è una forte incertezza per quel che riguarda il futuro dell’anno scolastico, alcuni studenti possono avere difficoltà nel trovare la spinta giusta.

Per alcuni, in realtà, l’allentamento degli obblighi e dello stress scolastico può creare una buona situazione per l’apprendimento e bisogna sfruttarla: alcuni nostri studenti non sono mai stati così concentrati, attivi e propositivi come in questo periodo.

Per altri, l’interrogazione o il compito sono i principali motori dello studio, e ora sembrano assai remoti o, magari, possono essere svolti on line con il libro comodamente davanti: perché mai dovrebbero studiare? Ci siamo posti questa domanda in tanti e diversi modi nel corso degli anni, ben prima di tutte le questioni connesse alla mediazione digitale. La risposta che ci siamo dati è che la motivazione consegue principalmente a una scelta personale e a un’adesione interna; non possiamo immaginare di avere un’unica carota da sventolare davanti a tutti. Quello che possiamo fare, però, è da una parte agevolare il processo maieutico che favorisce la motivazione (come? parlando e ascoltando, ovviamente), dall’altra rendere lo studio interessante, avvincente e – non dimentichiamolo mai – sfidante. La sfida, quando calibrata per non essere troppo semplice né frustrante, è la migliore alleata dell’apprendimento. Per fare tutto questo, però, è necessario uno sforzo ulteriore nella preparazione e/o nella conduzione degli incontri educativi. Uno sforzo creativo.

Distance learning

Parlo io parli tu?

Tutto ciò che abbiamo scritto, lo sappiamo bene, deve confrontarsi con la realtà materiale dei fatti: connessioni che sfarfallano, tecnologia non sempre performante, installa quel programma, apri i compiti sul registro, mandami le foto del libro, etc. Non vogliamo ora soffermarci sugli strumenti migliori, magari dedicheremo un altro post a questo, ma intanto ci sono alcune questioni di ordine generale. Innanzitutto, anche se sembrerà banale dirlo, bisognerebbe evitare il più possibile di usare il solo audio: il contatto visivo, anche quello più sgranato, è comunque funzionale alla comunicazione e all’attenzione. Anche il telefono, per lo schermo piccolo e le ridotte funzionalità su certe piattaforme, è uno strumento da usare solo quando non ci siano altre possibilità. Cerchiamo sempre di parlare lentamente, separando le parole e scandendole bene, per compensare i piccoli disturbi della linea. È anche importante, sempre per quanto riguarda i disturbi del canale, fare attenzione nella gestione del turno di parola: la sovrapposizione digitale è molto più antipatica di quella analogica, in presenza. Poi, farsi trovare pronti e preparati è una manifestazione evidente della cura che abbiamo per la relazione. È utile sapere, con un po’ di anticipo, che argomento dovranno affrontare, quali compiti devono fare (magari facendoseli mandare prima), insomma bisogna cercare di avere prima della lezione tutti i dati di cui abbiamo bisogno per essere preparati, scegliere accuratamente gli strumenti adatti e far filare l’incontro il più liscio possibile. Inoltre, è importante, per quanto possibile, fare anche attenzione al setting in cui si condurrà la lezione, l’ambiente che ci circonda e che comparirà sullo schermo dello studente: curare le luci e cosa abbiamo dietro di noi. È piacevole ascoltare un insegnante che parla con un muro bianco dietro, nell’oscurità?

Poi, un’ultima premura: probabilmente gli studenti usano già alcuni strumenti e piattaforme per la scuola, perciò bisognerebbe evitare di chiedere loro di moltiplicare gli accessi, rischiando così di indurli in una confusione maggiore. Chiediamo loro cosa già conoscono e sanno usare, mediando rispetto alle nostre esigenze. Non dimentichiamo anche che tutte le competenze digitali che siamo o saremo in grado di fargli acquisire in questo momento sono competenze spendibili in altri contesti e che quindi costituiscono una parte importante della nostra azione educativa.

Stare seduti è stancante

Last but not the least, le lezioni on line, per tutti questi motivi, sono spesso più stancanti per i docenti, quindi consigliamo di prendere almeno 15 minuti di pausa tra l’una e l’altra. Ma sono stancanti anche per gli studenti, che magari già stanno seguendo numerose videolezioni di fronte allo schermo: vista l’assenza di perdite di tempo legate agli spostamenti, sempre valutando bene da caso a caso, si può rimodulare la durata degli incontri: due ore consecutive? Due lezioni da un’ora l’una in due diversi pomeriggi della settimana? Tre lezioni da mezz’ora? Un supporto costante per 20 minuti al giorno? A voi, insegnanti e studenti, la valutazione!

Di nuovo sulla decadenza della scuola

Spesso c’è venuto fatto di parlare del padrone che vi manovra. Di qualcuno che ha tagliato la scuola su misura vostra. Esiste? Sarà  un gruppetto di uomini intorno a un tavolo con in mano le fila di tutto: banche, industrie, partiti, stampa, mode? Noi non lo sappiamo. Sentiamo che a dirlo il nostro scritto prende un che di romanzesco. A non lo dire bisogna far gli ingenui. È come sostenere che tante rotelle si son messe insieme per caso. N’è venuto fuori un carro armato che fa la guerra da sé senza manovratore.

[Lettera a una professoressa, p. 71]

La violenza a cui è sottoposta la scuola è qualcosa di antico e costante e che, di fondo, si manifesta sempre con modalità simili. Ma chi esercita questa violenza? Innanzitutto chi vuole tenersi stretta una scuola reazionaria, elitista e aristocratica (oggi si dice meritocratica, ma io sono classicista ed etimologicamente gli aristoi quello erano, i più meritevoli secondo i canoni di una specifica società). Come viene esercitata questa violenza? In molti modi. Innanzitutto c’è l’aggressione diretta e reiterata della politica che si traduce, ad esempio, nel 3,8% del PIL in investimenti sull’educazione (a fronte di una media europea del 4,8) oppure in quella totale assenza di responsabilità che è il continuare a rimandare i concorsi e le assunzioni, mandando in cattedra ogni anno quasi centomila precari e supplenti. Tale violenza – di cui le principali vittime sono le migliaia di studenti e docenti che poi ogni giorno tengono in piedi la scuola – viene amplificata e sostenuta da sferzate massmediatiche (come quelle di questi giorni sui risultati delle prove INVALSI) che con cadenza regolare schioccano dalle colonne dei principali giornali da parte di un gruppo di intellettuali di varia estrazione che potremmo rinominare “amici della predella” .

Una violenza materiale (quella delle politiche economiche sulla scuola) e una violenza comunicativa (gli spazi lasciati sui giornali alle parole degli “amici della predella”): insieme nel placido sodalizio che divora pezzo dopo pezzo la scuola italiana. Più che sulla prima, vorrei focalizzarmi sulla seconda per capirne il successo, mostrarne la costruzione e disvelarne l’inconsistenza delle basi scientifiche.

Il pensiero degli “amici della predella” riscuote un discreto consenso, purtroppo non solo, come verrebbe da credere, tra quelli più lontani – anagraficamente e per tipologia di impiego – dal mondo della scuola. Queste opinioni offrono, d’altra parte, giustificazioni semplici, motivazioni immediate e un capro espiatorio ben identificabile (preferibilmente morto e quindi senza possibilità di appello, come fa notare amaramente Alberto Sobrero) quando qualcuno – sia l’INVALSI o l’OCSE-Pisa – ci dice che la situazione è drammatica.

Per questo motivo è interessante osservare, per quel che si può, le reazioni dei non addetti ai lavori. Ad esempio, più che il responso da nonno in ciabatte davanti al camino di Augias (su Repubblica del 13 luglio 2019), a me colpisce la domanda della lettrice, il tono, il modo di instaurare nei suoi periodi il confronto prima/ora, le parole che usa per descrivere entrambi. Vediamo.

Dunque, la signora Nicoletta scrive a Corrado Augias su Repubblica perché è molto amareggiata dai risultati del test INVALSI. Il motivo di un tale disastro, secondo la signora, è che non ci sono più maestre com’era la sua mamma. Proprio le caratteristiche di questa mamma maestra sono interessanti da mettere in evidenza:

1) pretesa del “lei” per abituare gli studenti all’uso del congiuntivo;

2) severa ma anche materna e compassionevole;

3) che preferiva un buon dettato al cineforum.

Ma più in generale – sottintende la signora – proprio l’educazione ricevuta dai suoi genitori è stata un vero antidoto all’ignoranza. In cosa è consistita questa educazione? «Sono stata cresciuta da genitori che mi correggevano quando sbagliavo, che mi hanno stimolato ad apprendere, a coltivare idee, a sviluppare sentimenti, capaci di dire dei no, dettare regole» e soprattutto «abituare alla disciplina».

La risposta di Augias ha il tenore dell’ eh signora mia quanto ha ragione e il succo del discorso è che i social network hanno trasformato le nuove generazioni di studenti in decerebrati digitali. Per sostenere la sua tesi Augias cita l’ultimo libro di Luca Serianni, L’italiano. Leggere, scrivere, digitare e qualche riga dall’introduzione di Giuseppe Antonelli al medesimo testo, dove in realtà il linguista constata semplicemente che la rivoluzione digitale, investendo l’idea stessa di testo (come aveva già scritto lucidamente e benissimo Massimo Palermo nel suo Italiano scritto 2.0), ha modificato il concetto stesso di lettura. Ma come lo ha modificato l’invenzione della stampa o, ancora prima, il passaggio dal rotolo al manoscritto (sempre Palermo oppure, interessantissimo, Marco Cursi, Le forme del libro. Dalla tavoletta cerata all’e-book) .

Perché mi sono presa la briga di analizzare lo scambio Nicoletta/Augias? Perché esemplifica magnificamente alcuni caratteri prototipici del discorso sulla decadenza della scuola. E cioè:

 1) l’idealizzazione del passato e la convinzione di un’età dell’oro della scuola italiana in cui le competenze di lettoscrittura e calcolo dei nostri studenti prendevano a calci pure quegli snobboni dei socialdemocratici del nord sempre in vetta alle classifiche dell’istruzione; questa età dell’oro si è realizzata, secondo questa lettura, in virtù degli altri due caratteri: 

a) Quello della disciplina impartita un tempo da docenti e famiglie (simbolicamente rappresentata, appunto, dalla predella) è un topos imperituro, come scrive Pietro Lucisano nell’introduzione al libro di Anna Salerni, La disciplina a scuola:

Dalle pagine dei quotidiani i commentatori si strappano le vesti, chiedono maggior rigore e accusano la scuola e gli insegnanti di essere essi stessi artefici colpevoli della situazione. In questo teatrino, in cui tutti saremmo bravissimi a educare i figli degli altri, salvo stendere un velo pietoso sui risultati che abbiamo ottenuto come genitori, molti cedono al rimpianto di come funzionavano le cose in passato, “ai tempi miei”.

 b) la didattica tradizionale, vale a dire mnemotecnica grammaticale, nozionismo, tassonomie vetuste, categorie storiche con un certo sentore di colonialismo;

 2) ça va sans dire la decadenza è stata originata da un complotto democratico guidato da Tullio De Mauro che oltre ad aver abolito la bocciatura ha sostituito il cineforum al dettato (in questo Galli della Loggia può fregiarsi di una pregevole operazione di infamia giornalistica e umana, cioè scrivere dopo neanche un mese dalla morte di De Mauro in un articolo vergognoso intitolato Il ribaltamento pedagogico che rovina la nostra lingua, queste parole: «[la ministra non sa che se] da due, tre decenni le competenze linguistiche dei giovani italiani si stanno avviando verso la balbuzie twittesca qualche responsabilità, e non proprio minima, ce l’ha avuta proprio anche Tullio De Mauro»);

 3) ora che è arrivata la rivoluzione digitale questa didattica lassista (e in generale la mancanza di polso dei genitori di oggi) ha manifestato tutta la sua debolezza e ci ha consegnato i risultati INVALSI.

Le stesse posizioni, variate un po’ nello stile, si ritrovano immutate in molti articoli sulla scuola usciti negli ultimi anni. Oltre al già citato pezzo di Galli della Loggia che vince a buon diritto il premio pessimo gusto e vigliaccheria, ci sono i numerosi interventi di Paola Mastrocola, oppure l’opera di decostruzione di Lorenzo Tomasin su Lettera a una professoressa, in cui ad esempio l’accademico riduce le denunce dei bambini di Barbiana a un complottismo paranoico che autorizza l’odio verso la professoressa la cui colpa «agli occhi dei ragazzi di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita esecutrice di un complotto scientemente ordito dal Sistema». Come se le restanti pagine di dati messi insieme nella scuola di Barbiana non parlassero di una violenza della scuola ai danni dei figli dei contadini poveri, della loro sistematica esclusione dall’accesso alla conoscenza. A questa armata si aggiunge Silvia Ronchey, recentemente protagonista di un nuovo attacco all’educazione linguistica democratica e a De Mauro (anche se, come ha ben notato Sobrero, non ne fa mai il nome esplicito: vuoi per paura di un anatema, vuoi perché inconsciamente si rimuove qualcosa che fa paura); ma i punti, di nuovo, sono sempre gli stessi. Potrei continuare, ma quello che mi serviva trarre da queste opinioni l’ho già detto. Tutte insieme non fanno altro che replicare alcune narrazioni prototipiche.

In questo senso, la responsabilità dei giornali è enorme. Infatti, oltre che strepitanti e quasi mai argomentate, queste voci sono per lo più di intellettuali e accademici che non mettono piede in una scuola da quando si sono diplomati e che soprattutto, non essendo dei veri studiosi di storia della scuola, o di pedagogia, o di didattica, tentano di applicare alla scuola le categorie che usano per leggere altri mondi culturali, come l’accademia o l’editoria, finendo per immaginare una scuola con degli scopi forse diversi da quelli costituzionali: una scuola che sforna 7 milioni di intellettuali.

Con tutte queste persone, con Silvia ed Ernesto, Corrado e Nicoletta, Lorenzo, Paola e con tutti gli altri che ogni tanto sono tentati di iscriversi al “club della predella” vorrei fare un esercizio di immaginazione molto realistico, se avranno la pazienza di seguirmi.

Fenomenologia dell’insegnante da predella

Proviamo a immaginare allora che qualità debba avere il perfetto “insegnante da predella”. Poniamo che insegni – che ne so – italiano e latino. Il nostro sicuramente avrà alle spalle molti anni di servizio e sarà dunque ferratissimo nella materia: entrerà in classe senza libri, le date le avrà tutte in testa e in memoria un repertorio di citazioni in prosa e poesia che impressiona moltissimo i ragazzi (al confronto, io con le mie pile di libri, i quaderni pieni di schemi con le cose che mi devo ricordare e ricordare di dire sembro davvero Alice nel paese delle meraviglie: una sprovveduta dalle dimensioni variabili). L’insegnante da predella avrà quindi iniziato a insegnare in un’altra epoca (quando ancora, ad esempio, la predella c’era davvero e di barriere architettoniche non c’era da preoccuparsi), magari muovendo i primi passi in un collegio, o in una scuola maschile con logiche autoritario-repressive. E magari è rimasto lì, almeno con lo spirito. Dopo tanti anni di servizio, l’insegnante da predella avrà ceduto qualcosa del vigore con cui scudisciava un tempo, ma avrà guadagnato in autorità: è un’istituzione per generazioni di studenti, la sua parola e il suo giudizio rispetto a qualsiasi argomento sono Verbo. Non c’è nessuna possibilità, nessuna, che un tale insegnante apra una discussione su questioni didattiche con qualsivoglia docente (men che meno con una tipo me), perché da che mondo è mondo non si discutono le verità di fede. Le verità dell’insegnante da predella, in particolare, sono le seguenti: 1) la grammatica (italiana e latina) va imparata a memoria secondo definizioni obsolete e cavillose, anche quando linguisticamente errate (es: «il soggetto è colui che compie l’azione»; ma l’insegnante da predella non si aggiorna, quindi probabilmente non lo sa); 2) in generale tutto va imparato a memoria perché lo scopo della scuola è trasmettere nozioni e valutare impegno e disciplina; 3) scrivere bene vuol dire parlare anche di cose che non si sanno scrivendo per luoghi comuni purché l’ortografia sia corretta (e qui come non ricordare il tema della licenza media di Lettera a una professoressa, «Parlano le carrozze ferroviarie»?); 4) l’insegnamento è uguale per tutti, differenziare la didattica è sbagliato: se perdo tempo con chi non capisce sono i migliori a pagarne le spese. PEI? PDP? Solo sigle da burocrati. Disturbi Specifici dell’Apprendimento? Tutta un’invenzione per far studiare di meno i somari. BES linguistico? Qua siamo in Italia e si studia italiano: se non capisci quello che dico e che leggi non so che farti.

Purtroppo, per lo stesso motivo per cui certi editoriali vengono condivisi, è assai probabile che gli studenti, imbeccati anche dai genitori, accettino passivamente le affermazioni e la didattica di un simile docente: potrebbero addirittura ridere (istericamente) dell’essere interrogati in piedi davanti alla porta, godere masochisticamente delle umiliazioni, costretti a imparare a memoria senza capire, istigati alla competizione. Si potrebbero sentire fortunati, eroi di una qualche vessazione leggendaria.

 Non so se serve che lo dica. Probabilmente gli studenti di un simile insegnante non sapranno scrivere, pur conoscendo i nomi di tutti i complementi; non sapranno connettere concetti secondo principi basilari come prima/dopo e causa/effetto, pur essendo in grado di memorizzare quantità impressionanti di dati. Soprattutto, gli studenti dell’insegnante da predella avranno psicologie fragili (in proporzione diretta rispetto ai loro voti, verrebbe da osservare), soffriranno di disturbi d’ansia (sistematicamente screditati dal docente), avranno gravi problemi relazionali, ma ragazzi vedeste che disciplina avrebbero!

Visti gli esiti non proprio felici della didattica tradizionale, vista l’assenza negli editoriali della predella di un qualsiasi supporto o ragionamento scientifico sull’educazione scolastica, direi che dovremmo smetterla, ma davvero smetterla una volta per tutte, di alimentare i luoghi comuni che caratterizzano questo discorso reazionario sulla scuola.

Allora:

1) Non è mai esistita un’età dell’oro. Ammettiamo per un attimo che sia esistita: in che anni dovremmo collocarla? A rigor di logica, se la decadenza è cominciata alla fine degli anni ’60 allora possiamo pensare ai primi anni del decennio. Prendiamo allora i dati del 1961: ad avere la licenza media è meno del 10% circa della popolazione, quella superiore il 4,3% e  solo un 1,3% di fortunati ha la possibilità di laurearsi. Dieci anni dopo la situazione migliora di poco, e di pochissimo per i livelli più alti dell’istruzione (14,7%, 6,9%, 1,8%), con il tasso di analfabeti del 5,2%, vale a dire 2 milioni e mezzo di persone. Forse parlano degli anni ’80 allora, quando ancora le terribili riforme pedagogiche erano ancora in erba: 1 milione e 608 mila analfabeti (3,1%), 23% licenze medie, 11,5% diplomi di scuola superiore. Comunque la si veda si parla di trent’anni in cui quelli che andavano a scuola erano davvero pochi e in cui non si possiedono dati sulle competenze di questi pochi. Torniamo al discorso iniziale: cosa aveva di bello questa scuola che in tanti difendono e ricordano con nostalgia? Che era un privilegio. Solo questo.

 2) La classe docente italiana è vecchissima (il 57,2% dei docenti ha più di 50 anni: siamo il paese con i docenti più vecchi in Europa, dove la media è del 36%), scarsamente formata e/o aggiornata e molto poco consapevole di essere nel bel mezzo di una complotto cattocomunista (Sobrero in risposta alle allusioni di Ronchey) per smantellare le competenze scolastiche. Ad esempio, il documento alla base dell’idea demauriana di scuola, le Dieci tesi, sono – secondo una ricerca del GISCEL del 2014 – note a meno del 40% dei docenti intervistati. Mi sento quindi di rassicurare gli “amici della predella”: le classi italiane sono ancora piene di insegnanti da predella.

 3) Tenetevi i risultati dell’INVALSI, rivendicateveli: sono proprio i risultati di una didattica e di una forma scolastica che proviamo a cambiare da 40 anni, che non funzionava per Gianni di Lettera a una professoressa e che, chiaramente, non potete davvero credere che funzioni per 7 milioni e mezzo di nativi digitali.

Piccola apologia dell’errore

Se facessimo un sondaggio su quale colore rappresenti meglio la scuola, con ogni probabilità il più votato sarebbe il rosso. Rosso come il tratto di penna, matita, pennarello che in genere evidenzia l’errore fatto nel compito in classe. Il rosso è un colore come tanti, con connotazioni positive e negative a seconda del contesto (il sangue ma anche l’amore), ma state certi che la prima cosa che si prova a sbirciare quando sta per venire riconsegnato un compito è la densità di rosso, che denoterà la quantità di errori, e di conseguenza il voto.

La scuola è il regno degli errori, anzi, la scuola esiste proprio per gli errori. Eppure, l’errore viene generalmente considerato come l’anormalità, piuttosto che la normalità: l’errore è odiato, temuto, evitato nelle maniere più disparate (dal copiare il compito al compito in bianco: meglio bianco che rosso, si penserà); l’errore provoca vergogna e imbarazzo nei confronti della classe e del professore, e la paura di errare porta al blocco, alla chiusura, al non intervenire, al non interagire. Sarà anche per l’uso che se ne fa al di fuori della scuola: indicare un errore nelle attività altrui ci pone in una posizione di superiorità, in qualche modo quindi ci gratifica, tanto quanto può mortificare (e chiudere) chi viene colto in fallo.

Ma torniamo alla scuola. Dicevamo che l’errore viene considerato l’anormalità: etimologicamente è così, “errare” è vagare senza una meta, ma ancora prima, in latino, era “sbagliare strada”. C’è una strada giusta, normale, e ce ne sono infinite sbagliate, anormali. Ma in un contesto didattico la normalità diventa anormalità e viceversa. Se si sta imparando è impossibile non sbagliare: sbaglia chi insegna, figuriamoci quanto può sbagliare chi sta imparando. Io, l’altro giorno, preparando un seminario sull’errore linguistico (la mia prospettiva è quella di un docente di italiano), mentre prendevo qualche appunto personale per impostare il discorso, ho scritto “sfalzare”, con la z (ecco il correttore che me lo segna col rosso infame): preso tra i mille pensieri su cui stavo ragionando, mi sono perso la connessione tra “sfalsare” e “falso”, e l’ho scritto così, come lo pronuncio. Insomma, l’errore non per forza denota ignoranza: soprattutto quando si scrive, il nostro cervello gestisce così tante attività contemporaneamente che ogni tanto si perde qualche pezzo.

Ma non prendiamoci in giro: l’errore il più delle volte indica una mancanza, una carenza, un dominio non completo dell’argomento o dell’attività. Per insegnante e studente l’errore è il punto di partenza: ti spiego una cosa, tu sbagli, ti spiego dove hai sbagliato, cosa hai sbagliato, quale norma è stata violata (o quale uso standard è stato violato, nel caso delle parole), cosa fare per non incorrere nello stesso errore. Tu sbaglierai di nuovo, io spiegherò di nuovo, restringendo sempre più il campo. Dal blocco di marmo si ricava la statua dalle sembianze reali, ma la statua, nel mentre, è passata per tanti momenti in cui è stata un coso-senza-forma, un obbrobrio senza qualità riconoscibili: intervenendo qua e là, piano piano, una zona per volta… ecco vedi, quello è il naso, quelle sono le orecchie, quello è il braccio, e quella la mano che tiene un sasso.

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L’errore è traumatico. Frustra il professore, convinto della perfezione della sua spiegazione, della linearità delle regole che ha esposto; frustra lo studente, eppure le regole le sapeva: cos’altro deve fare per accontentare il professore? Perché l’esercizio non viene? Perché il tema è scritto male?

Evitiamolo, questo trauma, perché l’errore è il fulcro della didattica (esiste addirittura una pedagogia dell’errore). Solo attraverso gli errori, l’insegnante può capire se la lezione è stata compresa, se le indicazioni sono state acquisite. No? Perfetto, proviamo in un altro modo, con altre parole; solo attraverso gli errori, lo studente si sporca le mani, ricorderà la regola per le numerose volte in cui l’ha violata. Negli anni universitari usavo “riguardo” senza la preposizione: “Riguardo questa cosa, volevo dirti ecc.”, e il prof. Serianni ogni volta mi correggeva “riguardo A questa cosa”: in maniera molto neutra e netta, numerose volte; tanto ho sbagliato che non ho più sbagliato, e ancora mi risuona (come competenza, per quanto minima, non come trauma) quella preposizione “a” detta con maggiore intensità.

È un episodio di scarsissima rilevanza, ma mi ricorda ogni volta che così si acquisiscono le competenze: solo scalpellando scalpellando, di qua e di là, alla fine si può ottenere un bel naso.

Schermata di un registro elettronico scolastico

La tirannia del registro elettronico

Da quando è stato introdotto con l’articolo 7 comma 31 del Decreto Legge 95 del 2012, il registro elettronico è presente nella maggior parte delle scuole italiane (le ultime rilevazioni dicono che l’ha adottato l’82% degli istituti).

Il registro elettronico ha comportato un’incredibile semplificazione, nella vita degli studenti e delle famiglie; su questo non ci sono dubbi. Sei stato assente? I compiti sono lì, così come l’argomento delle lezioni. Anche per i professori (cioè per quelli a cui la scuola ha fornito i supporti tecnologici necessari) è una bella svolta, soprattutto per quanto riguarda le comunicazioni a studenti e famiglie e la condivisione di materiale didattico. Senza contare che se hai pure la lavagna elettronica puoi caricare direttamente le lezioni e chi non c’era o si è perso qualcosa può recuperare.

Ma il registro elettronico ha molte altre funzioni. In quanto registro, infatti, tiene le presenze, annota i ritardi, invia le note disciplinari, registra i voti, fa le medie. E soprattutto – differentemente dall’insegnante o dal dirigente scolastico medio – di tutto questo fa statistica. Proprio in questi giorni, riflettendo sul registro elettronico, mi tornavano alla mente i miei giorni da liceale. Quando si avvicinava la fine del quadrimestre, puntualmente, mi toccava la processione contrita alla cattedra per pregare il prof. di ricapitolarmi i voti, che non avevo certo avuto l’accortezza di segnare, oppure che avevo segnato in qualche quaderno sbrindellato settimane prima. Giusto per avere una vaga idea di cosa rispondere a mio padre quando, la mattina delle pagelle, mi avrebbe chiesto laconico: “Cosa devo aspettarmi?”. Non che non me ne importasse, né che non importasse a loro. Ricordo ancora con una certa commozione, mia e dei miei, quel mitologico nove in greco (frutto non del tutto onesto, per la verità, ma comunque un bel ricordo di famiglia). Io, dal canto mio, sono sempre stata abbastanza onesta nel riportare a casa il mio andamento scolastico, certamente aiutata dal fatto che non versavo mai in condizioni catastrofiche. Galleggiavo. Certo è che dall’altra parte, cioè a casa, nessuno premeva. I miei saranno pure stati opprimenti su tante cose, ma li ringrazio per non aver mai pronunciato quell’orrenda parola. Eccellenza. Avevo ansia da prestazione? Ogni tanto, soprattutto quando ero preparata poco e male. Fisiologico direi. Avevo ansia per il voto? Mai. Al massimo ci tenevo a fare bene quando credevo rappresentasse la stima che il docente aveva verso di me, o quando era qualcosa a cui tenevo particolarmente. Tipo i temi.

Registro elettronico

Ma torniamo al registro elettronico. La figura geometrica che descrive il rapporto genitore-studente-docente è quella di un faticoso triangolo. O almeno dovrebbe aspirare ad essere un faticoso triangolo equilatero. Tutti ugualmente distanti e tendenti allo stesso centro: la realizzazione umana dello studente. Se uno dei lati è più lungo degli altri, un altro viene schiacciato. E questo è solitamente lo studente. Con l’inserimento del registro elettronico, questa figura geometrica si è profondamente deformata e nessun quadrilatero è adatto a descriverla. Questo soprattutto per quanto concerne il processo valutativo, perché è come se i tre attori fossero contemporaneamente estromessi dalla figura e si potessero limitare al solo ruolo di osservatori. Mi spiego.

Il docente compila il registro elettronico inserendo il voto dopo, si spera, aver discusso con lo studente delle motivazioni (qualche docente poco accorto lo fa prima di aver restituito i compiti, ma questa è responsabilità personale). Da quel momento in poi, però, è il registro a essere portavoce. Agli occhi dei genitori è il registro che parla. Io posso non sapere che faccia abbia il professore di mia figlia o di mio figlio, ma ho già elaborato nella mia testa una sua immagine che ricorda vagamente un menù a tendina. Agli occhi dello studente è il registro che fa fede: la mia parola di docente conta sempre meno. La prof. ha dettato i compiti ma poi ha dimenticato di scriverli sul registro? Vuol dire che sono autorizzato a non fare i compiti. Che relazione si può costruire?

Il genitore, da parte sua, apre il registro elettronico, firma le giustificazioni e i voti, se proprio è solerte controlla cosa i professori hanno spiegato in classe. Non ha bisogno di chiedere nulla al figlio: può metterlo direttamente in punizione, controllare la media, studiare i progressi su un grafico, scrivere un messaggio al professore per chiedere spiegazioni di un’insufficienza o, in casi estremi, prenotare un colloquio di lagnanza. Alcuni casi di genitorialità distorta prevedono la domanda: “Quanto ha preso Tizio? Come è andato Caio? Come ti collochi rispetto alla media della classe?”.

Lo studente e la studentessa sono disperati. Le assenze sono possibili solo con genitori compiacenti (io, per dire, da maggiorenne ho dovuto dare fuoco al libretto e fingere di averlo perso – ché mio padre voleva tenerlo sempre con sé – l’unica volta in vita mia che ho marinato la scuola), i voti sono immediatamente disponibili, le statistiche e le medie dicono chi sono, gli argomenti cosa fanno.

Arrivo alla fine di questo mio pensiero. Nella scuola di oggi ci sono miliardi di problemi, ma due mi sembrano quotidiani: lo svilimento della professione del docente e l’ansia paralizzante che colpisce sempre più studenti (l’indagine Pisa del 2017 dice che siamo il paese europeo in cui i ragazzi provano più ansia nei confronti del risultato scolastico). Il registro elettronico, nelle sue versioni e nei suoi usi più patologici, sembra portare entrambi i dati ai livelli di pericolosità più elevati. Da una parte infatti il numero, la statistica ha – in un contesto altamente competitivo – un potere persuasivo maggiore della parola: la dialettica educativa, nella quale rientra anche la valutazione, è annichilita dal fascino del dato numerico. Qualsiasi motivazione educativa cede e l’ultimo baluardo a cui appigliarsi sono le griglie: ho valutato secondo le griglie, mi dispiace molto. Dall’altra parte, lo studente diventa sordo a qualsiasi proposta di riflessione: ogni possibile discorso sul metodo rimbomba come un’eco lontana e ovattata mentre nella sua testa si staglia solo, immenso, il giudizio numerico sulla sua esistenza passata, presente e futura. E tutto questo senza contare il danno enorme che si fa all’autonomia degli studenti, autonomia che riguarda anche la capacità di autovalutarsi e autoregolarsi.

Per evitare di sfociare nel luddismo, riprendo cose già dette in apertura. Non è il registro elettronico in sé il problema, ma il registro elettronico in me. Come ogni strumento e mezzo di comunicazione, anche il registro elettronico implica conseguenze in base alla forma (e quindi allo scopo) che gli si dà: ben venga allora la partecipazione, la condivisione, l’inclusione, il risparmio di carta. L’importante è che nel gioco dell’educazione non venga personificato fino a sostituire uno degli attori. I genitori, gli studenti, i professori e chiunque abbia a cuore l’educazione dovrebbe battersi, ad esempio, perché i voti non siano visibili. Le scuole dovrebbero scegliere coraggiosamente di proteggere l’ambiente di apprendimento, valorizzando la riflessione sulla valutazione, invitando i tre lati ad avere fiducia, non nei numeri, ma nell’educazione stessa.