Archivi categoria: Articoli

Cosa vogliamo dai nostri studenti? Spunti dalla maturità 2017

Esami di maturità 2017. Per l’analisi del testo della prima prova, la scelta di una poesia di Giorgio Caproni ha suscitato un esteso dibattito (qui un parere positivo e qui uno negativo): al di là delle invettive superficiali, che poco hanno a che fare con la didattica e la verifica di un percorso didattico (“Ma chi lo conosce Caproni?” “È la poesia più brutta di Caproni!”, ecc.), sono emerse delle critiche riguardo ad alcune questioni profonde che un sistema scolastico dovrebbe continuamente affrontare, e su cui ogni persona che lavora in ambito educativo, di ogni livello, dovrebbe riflettere. La domanda che bisognerebbe porsi, direttamente connessa all’esame, è semplicemente questa: cosa stiamo chiedendo agli studenti? Domanda che però ne presuppone un’altra: cosa vogliamo insegnare agli studenti?

Vi proponiamo perciò le opinioni di due nostri soci e docenti, originariamente postate su Facebook, che speriamo possano stimolare ulteriori riflessioni.

———

Giulia Addazi

Quasi nessun professore riesce ad arrivare fino a Caproni nel programma di quinto. Vero. Ma la poesia è semplice e con un messaggio immediato (al limite del banale), hanno detto in molti. Vero di nuovo.
Ma il punto è: cosa stiamo chiedendo ai nostri studenti? Perché se gli chiediamo solo di comprendere il senso di un testo e analizzarne la lettera secondo gli strumenti di analisi linguistica e retorica che per cinque anni ci siamo affannati a fornirgli, forse, non ci è ancora chiaro che l’analisi strutturalista è leggermente démodé e, soprattutto, che un testo non può essere descritto ignorando i rapporti che intrattiene con altri testi, o la tradizione, la poetica, il contesto storico, politico, sociale in cui un autore si muove.
Si insinua allora il dubbio che, dopo anni di teorie funzionali (cioè: facciamo scrivere e parlare i ragazzi delle cose che conoscono, che li appassionano o che – comunque – costituiscano riferimenti reali per loro), alla fine ci riduciamo sempre a premiare chi meglio ce la sa intortare. Li istighiamo a scrivere di ciò che non sanno – ma a farlo bene, con bei periodi lunghi e complessi (e una poesia come quella di Caproni non rende difficile il compito, in effetti: giù con banalità sull’amore per la natura – bleah!). Forse, la cattiva abitudine a premiare il Pierino del dottore di turno, abituato a esercitare la vuota magniloquenza, è un difetto che la scuola italiana non riesce, o non vuole, correggere.
A cinquant’anni dalla pubblicazione di “Lettera a una professoressa” e dalla morte di Don Lorenzo Milani (in un anno in cui – nel bene e nel male – del priore di Barbiana si è parlato tanto, anche dagli altri scranni del ministero), pare che la lezione non sia stata ancora recepita. Anzi, temo che da certi editorialisti borghesucci e radical chic possa venire un osanna generale al “grande Caproni, troppo poco studiato, per la verità”.
E allora vi ripropongo il celebre racconto delle carrozze ferroviarie e del tema di licenza media, da “Lettera a una professoressa”.

A giugno del terzo anno di Barbiana mi presentai alla licenza media come privatista. Il tema fu: «Parlano le carrozze ferroviarie». A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo. Così scrivo coi miei compagni questa lettera. Così spero che scriveranno i miei scolari quando sarò maestro. Ma davanti a quel tema che me ne facevo delle regole umili e sane dell’arte di tutti i tempi? Se volevo essere onesto dovevo lasciare la pagina in bianco. Oppure criticare il tema e chi me l’aveva dato.

———

Michelangelo Pecoraro

Caproni mi piace; non quanto Pascoli o Montale, per stare agli autori nel programma dell’ultimo anno, ma mi piace.
Non trovo disprezzabile il tema della poesia scelta per l’esame di maturità di quest’anno, cioè il rapporto tra la natura e l’uomo, tutt’altro: lo trovo adeguato al periodo storico e foriero di stimolanti riflessioni. Qualcuno lo definisce “banale”, ma ritengo che questo tipo di giudizi lasci sempre il tempo che trova: spesso ciò che viene etichettato come “banale” o “superficiale” è più interessante e meno opinabile di tanti pensieri “profondi” o “complessi” (categoria analitica, non ontologica, ormai applicata, a mo’ di giudizio definitivo, a qualsiasi cosa si ritenga degna della propria attenzione); se non la pensassi così, non apprezzerei a tal punto le poesie di Leopardi o le lettere morali di Seneca, autori tra i miei preferiti e spesso “banali”, ma di quella “banalità” che io preferisco chiamare “saggezza”.
Ma c’è un “ma” e non di poco conto.
Come in molti già hanno notato, la poesia scelta pone un problema di principio, cioè cosa viene richiesto ai ragazzi, quali abilità si tenta di sollecitare attraverso questa prova.
Caproni, ottimo poeta che non ha certo bisogno di apologie o apoteosi, non viene quasi mai fatto studiare dai docenti, nel corso dell’ultimo anno; al massimo, se ne fanno leggere una o due poesie durante il biennio, quando si studiano gli strumenti retorici dell’analisi poetica. Dunque, dopo anni passati a spiegare ai ragazzi (e ai genitori, nel corso dei colloqui) l’importanza dello studio e della conoscenza del contesto (storico, letterario e artistico in senso lato) per spiegare i prodotti dell’agire umano, gli si dà da scrivere riflessioni su un autore di cui si è detto poco o niente. Insomma, il timore è che il messaggio di fondo sia: “Vediamo come ve la cavate, perché nella vita vi capiterà spesso di dover discutere e argomentare su cose delle quali non saprete nulla”.

La grande quercia simbolo di Laudes

L’insegnamento tra scuola e lezioni private

Laudes è nata poco più di tre anni fa, anche se dall’idea alla realizzazione è trascorso del tempo. Dopo aver soppesato le vie da percorrere, abbiamo cercato man mano di risolvere vari problemi. Trovare il luogo idoneo per la sede e allestirla, per esempio, è stato uno dei primi e più importanti. Alla fine abbiamo aperto, fronteggiando la burocrazia e le incombenze organizzative, senza alcun capitale alle spalle, senza finanziamenti né spintarelle: veramente da zero.

Il primo anno è stato duro, dovendo fare tutto in pochi. Crollavamo esausti la sera, dopo l’ultima chiacchierata con una mamma o un papà, oppure di notte dopo una riunione. Metà giornata a fare lezione, l’altra metà a organizzare il lavoro. Tutto per vivere insegnando. Sogno nato chissà come; forse per amore verso un insegnante passato, forse per le ore in cui i nostri genitori ci hanno raccontato o letto delle storie.

Ci chiamiamo “insegnanti” perché insegniamo

Ci chiamiamo “insegnanti” o “docenti”; ogni tanto un ragazzo mi chiama “professore” e io sorridendo gli minaccio uno scappellotto; ogni tanto un bimbo mi chiama “maestro” e io gli rispondo «Seee… magari!». Alcuni difensori della vera fede, rimarcando la propria presunzione di superiorità, ci dicono «Vabbè, ma voi fate ripetizioni»; questa cosa, anche se mi sforzo di sorridere di fronte alla stupidità altrui, riesce sempre a farmi un po’ incazzare. Il problema non è l’uso della parola “ripetizioni”, sebbene non sia del tutto appropriata al modo in cui insegniamo, da cui la mia preferenza per l’espressione “lezioni” (quando si legge) e altre tra cui “incontri” o “chiacchierate” (quando gli studenti hanno particolari problemi con la lettura e quindi principalmente si parla); mi incazzo per il tono di supponente superiorità.

Essendo anche un discreto percussionista, ho già avuto modo di affrontare la questione: si suppone che si tratti di una cosa semplice, adatta anche a qualcuno alle prime armi e senza preparazione specifica; quindi viene fatta da tantissime persone e spesso in modi sbagliati, a volte aggravando i problemi degli studenti, anziché risolvendoli. Elio canta «Piantala con ‘sti bonghi» e a me dicono «Perché non la smetti con ‘ste ripetizioni e non ti trovi un lavoro serio?». Si tratta, appunto, di una supposizione. Nel caso della nostra associazione, una supposizione del tutto errata: i docenti hanno tutti delle grandi capacità disciplinari e didattiche. Ci siamo selezionati in modo fin troppo severo; tra i vari aneddoti che potrei citare a sostegno della tesi, mi piace ricordare quella volta in cui un amico romano mi disse «Aò, m’hanno preso a fare il dottorato a New York ma non a insegnare a Laudes…!».

A questo punto, ci si può chiedere (e a volte me lo chiedono) «Se amate a tal punto l’insegnamento, perché non insegnate in una scuola pubblica?». Questa domanda si ricollega a un dilemma sul quale ho dovuto riflettere a lungo: per parlare chiaro, bisogna avere l’animo chiaro. La risposta potrebbe essere fraintesa, ma ciò che tenterò di chiarire è fondamentale per l’intera attività dell’associazione.

Potremmo insegnare in una classe. Alcuni di noi già l’hanno fatto, altri lo fanno e dividono il proprio tempo tra l’insegnamento in classe e quello con l’associazione. Da un lato, non ci manca la preparazione sui contenuti: tutti i docenti hanno alle spalle un percorso accademico brillante fatto di centodieci cum laude, premi di laurea, dottorati. Dall’altro, non ci manca nemmeno la pratica didattica: alcuni insegnano privatamente, con buoni risultati, da oltre dieci anni. Perché, allora, insegnare con l’associazione?

La scuola pubblica, ma non per tutti

Prima di tutto bisogna riflettere sui percorsi che lo stato, negli ultimi anni, ha destinato a chiunque desiderasse insegnare nelle scuole pubbliche. Percorsi irti di difficoltà, burocrazia, falsità (nemmeno sempre smentite), modifiche in corso d’opera e non solo. Il Tfa, percorso formativo a pagamento che, dalla laurea, ha condotto all’abilitazione per gli aspiranti docenti, ha avuto durata annuale, con lezioni obbligatorie da seguire, compiti a casa e un periodo di tirocinio da svolgere in classe che si è spesso trasformato in lavoro gratuito al posto degli insegnanti titolari. Come accedere a questo percorso dovendosi mantenere autonomamente? Come conservare un posto di lavoro, senza poter lavorare per mesi e mesi? Soluzioni: farsi mantenere per l’intera durata del Tfa o avere già da parte una cifra bastante a stare un lungo periodo senza lavorare. Non tutti hanno potuto farlo: è stata attuata una sorta di selezione su base economica ancor prima di cominciare la “lotta meritocratica” per i posti in palio. In molti, comunque, hanno avuto la temerarietà e la fortuna di poter intraprendere questo percorso. Senza alcuna certezza, oltretutto, dato che l’abilitazione sarebbe stata solo il requisito per poter poi partecipare a un concorso.

Sono esagerato? Sto calcando troppo la mano su disagi cui qualsiasi tipo di lavoratore è sottoposto? Si legga rapidamente (ché simili persone non meriterebbero il tempo che gli si dedica, se non ricoprissero per chissà quale motivo ruoli di grande importanza) la dichiarazione di Stefania Giannini, ex Ministro dell’Istruzione, secondo la quale i Tfa e i Pas (percorsi di abilitazione ora aboliti) sarebbero stati «fabbriche di illusioni che hanno prodotto solo frustrazioni per chi li ha frequentati (pagando) e per chi vi ha insegnato».

Superati questi ostacoli, comunque, cosa che alcuni validi laureati e amici hanno fatto, sarebbe giunto il momento dell’agognata classe! Mèta ambita più che oasi nel deserto, ma non per questo fine ultimo delle sofferenze. Anzi, inizio di un nuovo tipo di sofferenze, più subdole perché mischiate al dolce del traguardo raggiunto. Un veleno ad azione lenta.

Vantaggi dell’insegnare in un’associazione

Tantissimi sono i problemi che affliggono l’insegnamento scolastico, in questo momento della storia italiana. Su molti siti dedicati al mestiere, non passa giorno in cui non emergano nuove carenze o questioni, intrinseche all’attività oppure elaborate dall’agire umano: strampalate circolari ministeriali; l’ottusità di un preside, di una famiglia, di uno studente o di un collega; la burocrazia che avviluppa intere giornate; l’incertezza stessa della possibilità di insegnare e imparare che prende varie forme, tra cui quella nota col nome di “supplentite”. Affronterò ora brevemente solo alcuni di questi problemi. Ci tengo anche a precisare che ritengo l’insegnamento pubblico uno dei pilastri della civiltà contemporanea. Mi riservo di spiegare in altra occasione, data la lunghezza già eccessiva di questo intervento, perché credo che il tipo di insegnamento da noi praticato non contrasti affatto con le istituzioni scolastiche, ma abbia invece delle potenzialità sinergiche da non sottovalutare.

Esempio estremo di "classe pollaio": i 54 studenti di questa foto di classe sono gli alunni che nel 2011 frequentavano il terzo anno del liceo scientifico Galilei di Modica (Ragusa). Fonte: La Repubblica.
Esempio estremo di “classe pollaio”: i 54 studenti di questa foto di classe sono gli alunni che nel 2011 frequentavano il terzo anno del liceo scientifico Galilei di Modica (Ragusa). Fonte: La Repubblica.

Ecco una delle difficoltà per me più importanti per tutti i docenti che credono nel proprio lavoro: l’omologazione dell’insegnamento nelle scuole pubbliche. Questo aspetto è strettamente legato alla necessità dello Stato di controllare i programmi scolastici per garantire, sull’intero territorio nazionale, il raggiungimento di eguali obiettivi didattici; consideriamola, dunque, una difficoltà intrinseca al lavoro di insegnante pubblico. Ciò che potrebbe essere declinato in modo intelligente, tuttavia, garantendo le specificità di ciascun insegnante e la tanto celebrata ma poco praticata autonomia degli istituti scolastici, viene spesso perseguito con l’inibizione di ogni metodo “diverso”, di ogni tentativo di andare al di là della mera ripetizione di nozioni, “depurando” le aule dalla personalità dei docenti. Molti docenti riescono ancora a comportarsi “diversamente”, ma ne pagano il fio, sopportando infinite battaglie contro le istituzioni e parte di colleghi e genitori. E non voglio certo dire che un metodo sia valido solo in quanto “strano”, ma la “stranezza” viene sempre più spesso usata come etichetta aprioristicamente negativa, inibendo sul nascere, magari, anche tentativi didattici di alta qualità.

Nelle scuole, purtroppo, si è esposti agli strali di chiunque si svegli con l’umore di traverso. Questo influisce soprattutto sulla libertà linguistica e comportamentale del docente. Non è facile da spiegare, ma ci sono momenti in cui una parolaccia o un gesto inusuale possono avere un grande valore didattico o addirittura educativo. Conosciamo tutti il film L’attimo fuggente: il film mostra la fine cui sono destinati molti dei docenti che non si allineano alle direttive, che mostrano originalità nell’approccio e nel linguaggio. Ciò è richiesto dalla scuola pubblica che necessita di standard. Come ho già detto, però, la sclerotizzazione delle procedure, delle etichette e dei regolamenti favorisce la marginalizzazione del diverso, l’accanimento nei confronti di chi tenti vie meno battute. Operando un’adeguata valutazione e selezione che garantisca la qualità del docente, l’insegnamento svolto nell’associazione offre la possibilità di usare metodi ed espedienti eterogenei, adeguati alla singola situazione didattica e alle esigenze dello studente, della famiglia e del docente.

Quanti docenti, a scuola, hanno mai provato a salire sulla cattedra?
Quanti docenti, a scuola, hanno mai provato davvero a salire sulla cattedra o sui banchi?

Le condizioni strutturali della scuola pubblica sono assai complicate, come già accennato: non è difficile trovare classi di 30 studenti e oltre; il tempo a disposizione per ciascuna materia è scarso; ciononostante, la quantità di cose da imparare rimane sempre più o meno la stessa. L’approfondimento e la chiarezza comunicativa che si riescono a raggiungere con un piccolo numero di studenti sono enormemente superiori.

L’autorità del docente, a scuola, è messa in dubbio ogni giorno e diventa sempre più complicato far percepire il valore del proprio lavoro e delle discipline che vengono insegnate. Lo si riscontra nel modo becero che i presidi e i genitori usano per trattare gli insegnanti, nelle frecciatine derisorie dei politici e degli opinionisti in televisione, nel disincanto che gli stessi insegnanti faticano a nascondere tra le righe dei propri scritti o tra le parole che pronunciano in pubblico e in privato. Lavorando in un’associazione che garantisca degna retribuzione e libertà di azione, nonché la possibilità di rifiutare un incarico da parte dei docenti e i docenti da parte delle famiglie, l’autorità e la fiducia reciproche vengono costantemente monitorate e salvaguardate.

Termino qui il breve e superficiale elenco sperando di aver almeno cominciato a chiarire, con questi argomenti, il perché alcuni di noi facciano questa scelta. Conto di riprendere il tema in prossimi interventi, approfondendo alcuni punti e, soprattutto, spiegando perché l’universo didattico dell’associazionismo abbia delle potenzialità sinergiche rispetto al mondo della scuola pubblica (e privata) ancora da valutare e apprezzare più seriamente.

Gli studenti sembrano apprezzare una lezione tarata sulle proprie esigenze...
A Laudes, gli studenti sembrano apprezzare una lezione tarata sulle proprie esigenze…
Frontespizio del libro Lingua Latina di Hans Orberg

“Metodo Ørberg” o “tradizionale”? Riflessioni dal convegno GrecoLatinoVivo

In questi anni un “nuovo” metodo didattico per il latino e per il greco antico sta acquistando popolarità e diffusione crescenti anche in Italia. L’aggettivo è tra virgolette perché in realtà il metodo in questione, secondo una tradizione ben attestata da numerosissime fonti, è stato usato nel corso di lunghi secoli; dall’antichità, quando le lingue in questione erano lingue parlate correntemente e apprese come lingue materne, fino alle soglie dell’età contemporanea, con l’affermazione (prima in area germanica, poi nel resto dell’Europa e del mondo) del metodo ora considerato tradizionale e che può essere definito (con una certa approssimazione) grammaticale, deduttivo e traduttivo.

Il cosiddetto metodo naturale, vivo o attivo, cioè quello che può essere definito induttivo e non-traduttivo, è perlopiù noto in Italia col nome di “metodo Ørberg”, dal nome del latinista e linguista danese Hans Henning Ørberg (1920-2010). Nel 1990, rielaborando una sua precedente pubblicazione, Ørberg scrisse e produsse con la casa editrice Domus Latina, da lui fondata, Lingua latina per se illustrata, il libro di testo più usato oggi per seguire questo metodo.

Il manuale di Ørberg, ovviamente, riguarda il latino. Per il greco, il testo principalmente usato dai docenti che scelgono di affidarsi al metodo “vivo” è Athènaze, pubblicato anch’esso nel 1990 e scritto dagli studiosi inglesi Maurice Balme (1925-2012) e Gilbert Lawall (1936), ripubblicato con alcune modifiche nel 2003 e in terza edizione nel 2016, con l’apporto del professor James Morwood (1943), per la Oxford University Press.

Non entrerò ora nell’analisi dettagliata dei due manuali e delle loro traduzioni italiane che presentano modifiche e aggiunte (soprattutto nell’apparato iconografico), né affronterò la discussione generale sul metodo. Le caratteristiche più evidenti dovrebbero essere queste: interazione orale costante (ma non perenne) tra insegnante e studenti svolta nella lingua studiata; tendenza a posticipare la riflessione grammaticale (si badi bene: non eliminare, ma posticipare) limitandola, almeno all’inizio, ai fondamentali (sorvolando su alcuni dati presenti invece in gran copia in tutti gli altri manuali, come le “eccezioni” o “particolarità”, tra cui il caso vocativo); riorganizzazione delle declinazioni (con la collocazione dei cosiddetti casi diretti, cioè il nominativo e l’accusativo, all’inizio); presenza di un ricco apparato iconografico usato, insieme ad altri espedienti, per facilitare la memorizzazione di un ampio bagaglio lessicale che, punto cruciale, deve portare lo studente a evitare l’uso massiccio del vocabolario e a familiarizzare con la lingua studiata.

Traduzione

Affronterò prossimamente, in altri articoli che saranno pubblicati sul blog di Laudes, gli argomenti cui ho accennato. Quello che voglio fare, ora, è approfittare di un evento che si è appena concluso per ragionare sulla sterile contrapposizione in atto tra i docenti che seguono i due metodi. Una contrapposizione spesso aprioristica, fatta di ostentato menefreghismo per le ragioni dell’altro e senza approfondire i singoli argomenti, condotta in nome di un “rispetto della tradizione” o di un “rinnovamento” che sembrano affondare le proprie radici in visioni decisamente ideologiche, piuttosto che in ragionate riflessioni sull’utilità didattica di ciascuna scelta fatta nel rapporto con i propri studenti. Alcuni pregiudizi dei sostenitori del metodo “tradizionale” si annidano nelle parentesi del precedente paragrafo: l’idea che con questo metodo non si faccia studiare la grammatica, per esempio, o l’idea che il docente si trasformi in un marziano che parla SOLO in latino o in greco senza far capire una mazza agli studenti. Ma, come in tutte le contrapposizioni, sono altrettante le strategie retoriche della controparte; ne citerò qualcuna, tra poche righe.

L’evento in questione, il «Primo Seminario Internazionale di GrecoLatinoVivo in Didattica delle Lingue Classiche», si è tenuto a Firenze il 16 e 17 marzo e ha registrato un’affluenza di circa 350 persone provenienti da vari paesi europei (di certo Portogallo, Spagna, Francia e Svezia, da cui provenivano alcuni relatori). Nel corso di circa 15 ore complessive sono stati affrontati vari argomenti, con diversi livelli di approfondimento e oscillazioni nel mio personale interesse: gli interventi più interessanti mi sono apparsi quelli pragmatici, volti a esemplificare la metodologia e a fornire uno stimolante repertorio di espedienti didattico-comunicativi, come quello dello svedese Daniel Petterson, curatore del portale Latinitium, del docente veronese Alessandro Conti (alias Alexander Veronensis) e di Jorge Tárrega, docente all’Università di Valencia. Il fondatore di GrecoLatinoVivo, Giampiero Marchi, ha retto le fila degli interventi, a volte commentandoli, ha introdotto e concluso il convegno, nonché presentato i relatori. Uno dei momenti che attendevo con maggiore interesse, ossia la “messa in scena” di un’intera lezione sull’acquisizione dei pronomi personali che avrebbe dovuto compiere lo stesso Marchi, è saltato. La simulazione non si è svolta per i raggiunti limiti di tempo nel Teatro Niccolini, sede dell’evento, ma la promessa è stata quella di filmare e mettere online la lezione il prima possibile.

grecolatinovivo

È stata un’esperienza insolita anche per il fatto che alcuni relatori hanno effettuato la loro esposizione in latino, usando la cosiddetta pronuncia restituta (adottata ormai nella stragrande maggioranza del mondo). Petterson, per esempio, che ha titolato il proprio intervento Quomodo nos ipsos Latine doceamus? (“Come possiamo imparare da soli il latino?”), parlando dei metodi per avvicinarsi al latino ANCHE come lingua parlata, attraverso espedienti che consentano di coniugare lo studio approfondito con i ritmi spesso frenetici della vita moderna. Non avevo mai sentito prima un lungo intervento orale in latino, quindi avevo il timore che avrei capito ben poco: non solo ho compreso tutto, compresi i passaggi ironici che hanno mosso al riso me e buona parte della platea, ma confesso di aver provato anche un certo piacere nel farlo.

E, a proposito di risate, non sono mancati i momenti in cui si è riflettuto sul valore didattico del gioco: ne ha parlato Alessandro Conti nel suo intervento dal titolo Con un poco di zucchero: la didattica del gioco per il latino, concentrandosi sulle possibilità offerte dall’insegnamento del latino extra-curricolare a partire dalla seconda media e suggerendo vari modi, sperimentati in prima persona, per coinvolgere gli studenti più giovani, usando giochi, giocattoli, bambole, dolcetti, plastici, cruciverba e altro ancora, senza il rischio di spaventare da subito i ragazzi con il timore dei voti, delle verifiche e con l’impegno dei compiti a casa. Noi di Laudes, inoltre, ci occupiamo da tempo della tematica e stiamo cercando di introdurre a Roma una maggiore consapevolezza del valore didattico delle attività ludiche (ecco un articolo di introduzione generale all’argomento).

Non solo latino per i più piccoli o per persone alle prime armi, però: Jorge Tárrega ha tenuto un intervento dal titolo De usu atque arte docendi in Universitatibus Studiorum (“Sulla pratica e l’arte dell’insegnamento nelle università”), in cui ha spiegato come porta avanti l’insegnamento del latino, in latino, nell’Università di Valencia. Ha esemplificato lo svolgimento di una lezione, mostrando il lavoro svolto sui testi, basato su alcune costanti come la lettura comune e ripetuta, la ricerca di sinonimi e contrari, la spiegazione delle iuncturae e, soprattutto, una costante attenzione allo stile e ai contenuti di ciascun autore.

Come già accennato, non sono mancati strali indirizzati ai detrattori del “nuovo” metodo. Il motivo principale è che viene osteggiato, più o meno esplicitamente, in buona parte delle scuole italiane, spesso con argomenti fittizi come quelli succitati. Come ho già detto, però, non ritengo che comportarsi allo stesso modo dei detrattori, usando argomentazioni capziose o strategie retoriche atte a svilire il metodo “avversario”, sia una scelta saggia. Affermare che il latino rischi di non piacere più ai giovani a causa del metodo “tradizionale” con cui è insegnato, per esempio, oppure che chi insegna secondo il metodo “tradizionale” manchi di passione, di certo contribuisce all’inasprimento della contrapposizione e impedisce che si riescano a cogliere in modo imparziale gli aspetti positivi e quelli negativi presenti in entrambi i metodi.

Non solo la virtù, anche la verità sta nel mezzo. Il punto, come riteniamo a Laudes, è che non esiste UN metodo universalmente valido. Le persone, studenti e docenti, sono differenti: molti studenti si lamentano dell’enorme lavoro di tipo puramente grammaticale, è vero, ma anche nelle sezioni che sperimentano il “nuovo” metodo si levano i primi mugugni. Per avere un esempio divertente e, soprattutto, dal punto di vista di uno studente, si può leggere qualche pagina di un blog scritto nel 2015: tra i numerosi errori grammaticali e ortografici si evince l’odio generalizzato della classe nei confronti della docente, mai chiamata con il suo nome ma con il trasparente appellativo di Crudelia Demon; appunti a metà tra il critico e l’ironico sono riservati al manuale Athènaze e alla pratica di imparare liste di parole a memoria, cosa oltretutto sconsigliata da parte di quasi tutti i relatori presenti al convegno. Ho personalmente seguito un buon numero di studenti afflitti dall’Ørberg e, come per il metodo “tradizionale”, molta è l’importanza dei comportamenti tenuti dal docente: appioppare ai metodi gli errori dei docenti non è altro che una strategia retorica di delegittimazione.

In realtà i due metodi sono più vicini di quanto non si pensi. Ecco alcuni spunti di riflessione: la grammatica si studia in entrambi i casi, cambia solo il momento in cui farlo; in entrambi i casi si fanno esercizi di tipo ripetitivo, che siano per via orale o scritta, domande e risposte o traduzioni di brevi frasi; l’importanza del lessico è ormai sottolineata in OGNI manuale, anche nei cosiddetti “tradizionali”, in cui sono da anni presenti liste di parole da conoscere (che poi si ritrovano nelle frasi degli esercizi) e schede di approfondimenti su singole famiglie semantiche; l’uso di espedienti didattici e mnemonici è lasciato quasi sempre all’iniziativa del singolo docente, sia esso un fautore del metodo “tradizionale” o di quello “nuovo”, e lo stesso si può dire per la passione e la capacità di comunicare positivamente con i ragazzi.

Insomma, dal mio punto di vista sono aperte le vie per abbandonare questa contrapposizione e cominciare un serio lavoro di analisi sui singoli espedienti da usare e su come integrarli, ragionando anche sulle percentuali di tempo da dedicare alle singole attività: ricordiamoci sempre che la varietas e l’eterogeneità nel condurre le lezioni sono una ricchezza e contribuiscono a mantenere desti l’interesse e l’attenzione dei ragazzi nei confronti di materie come il latino e il greco che, ogni giorno di più, vengono messe sotto attacco da parte di una classe politica povera di idee e spirito.

Post-verità, bufale e istruzione – parte prima

Questo è il primo di alcuni post sulla post-verità e la centralità dell’istruzione nella società dell’informazione. In questo primo post si parlerà del concetto di post-verità e si cercherà di contestualizzarlo. 

Il 2016 è stato l’anno in cui le bufale, ovvero le notizie inventate con cui chiunque (dotato di connessione internet) ha avuto a che fare, sono finite al centro del dibattito pubblico e messe sul banco degli imputati, principalmente per via della realizzazione, ritenuta altamente improbabile, di due eventi: l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (ovvero la Brexit) e l’elezione del magnate Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Questa clima di proliferazione e centralità delle bufale è stato chiamato post-verità.

Cos’è la post-verità?

Il termine è diventato di larghissimo uso in Italia dopo che è stato eletto dal Oxford Dictionary parola dell’anno; proprio per la sua stretta connessione con il discorso politico, la definizione del dizionario (ripresa e correttamente tradotta in un ben documentato articolo sul sito dell’Accademia della Crusca) è

“Relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali”

Il termine post-verità (che in inglese ha principalmente un uso aggettivale: si parla infatti di post-truth politics post-truth age) non vuol dire quindi bufala, notizia falsa o fake news (come talvolta è usato) ma una situazione in cui la realtà dei fatti è meno importante delle convinzioni personali (qua trovate un buon esempio di questa dinamica). In un ambiente post-vero, ovvero nel momento in cui i fatti non sono centrali, le bufale proliferano come virus. Le bufale, infatti, sono notizie create apposta per circolare (dietro alla maggior parte delle bufale c’è infatti anche un bel giro di soldi), e che quindi hanno come caratteristiche principali quella di toccare l’emotività delle persone (non a caso sono spesso iperboliche) e quella di incontrare le convinzioni della maggior parte delle persone.

Nel momento in cui pensiamo alle bufale non possiamo non pensare ai social network: quanti articoli clickbait vediamo scorrere sulle nostre home dei social a cui siamo iscritti? Quanti titoli eclatanti che rimandano a finti siti giornalistici (o siti che fanno esplicitamente la parodia di siti giornalistici, come Lercio, ma non vengono interpretati come tali)? E quante volte ci accorgiamo che qualcuno ha condiviso, seriamente, una notizia senza alcuna fonte affidabile? Non si può negare che ci sia una stretta correlazione tra epoca della post-verità e social network, anzi, alcuni sostengono che dietro questa correlazione ci sia un vero e proprio rapporto di causa effetto. Innanzitutto perché ciò che viene pubblicato non deve passare le maglie di un controllo redazionale, umano, ma quello di algoritmi. Come evidenzia Luca De Biase, a differenza del mondo pre-digitale, quando la pubblicazione era un’operazione materialmente costosa, oggi la pubblicazione di un’informazione non ha costi e quindi si tende «a scrivere tutto e a selezionare l’informazione dopo che è già stata pubblicata». Il problema è che un social network, come Facebook, ha come principale obiettivo quello di creare relazioni tra utenti, ed è quindi meno interessato a selezionare le informazioni in base alla loro verificabilità: l’interesse principale è far incontrare ogni utente con le informazioni che a lui interessano e con le persone che condividono queste informazioni. E se normalmente già tendiamo ad acquisire con più facilità le opinioni che confermano i nostri pregiudizi (il cosiddetto confirmation bias, o bias di conferma), gli algoritmi di Facebook rendono più facile questo lavoro.

Si arriva così al secondo problema, evidenziato da Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini nel libro Misinformation (qui un sunto), ovvero quello delle camere di risonanza (echo chambers): ogni utente ha una home di Facebook con una micro-opinione pubblica che, di fatto, fortifica la propria opinione; non solo, ogni utente a sua volta è un media e contribuisce a costruisce la camera di risonanza di qualcun altro, e così via.

In questa architettura, per gli autori del libro, è più facile irrigidire il proprio punto di vista ed è così più difficile dialogare con chi, a sua volta, ha un punto di vista irrigidito. In ciascuna di queste isole ogni bufala-virus prolifera, con la scarsa possibilità di incontrare la voce di un contraddittorio, e, quand’anche la incontri, con la grande probabilità che questa voce, a sua volta, venga considerata portatrice di informazioni false, perché in contraddizione con le convinzioni personali.

Tuttavia, c’è anche chi crede che in realtà non stiamo assistendo a un peggioramento della qualità dell’informazione, anzi, che l‘idea stessa di epoca della post-truth sia a sua volta una fake news (basata solo su convinzioni degli opinionisti e non verificata da dati). A tal proposito è interessante l’intervento di Mario Pireddu, sociologo della comunicazione. Innanzitutto, non è vero che gli utenti si informano solo nelle loro camere di risonanza, anzi, secondo uno studio, la frequenza dei block e dei filtri imposti manualmente dagli utenti dimostra come gli algoritmi non lavorino, evidentemente, tanto bene; poi, non è vero nemmeno che oggi l’informazione è peggiorata, piuttosto è aumentata la quantità di informazioni: e l’utente di un social network si informa mediamente di più di chi non sta sui social media, da fonti più differenziate. Insomma, per Pireddu, «quel che emerge dalle ricerche più recenti è l’aumentata disponibilità di tutte le informazioni e le argomentazioni di tutte le parti politiche».