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La “flat tax” sulle ripetizioni

Come si era saputo già a partire dalle bozze circolate nei mesi scorsi, le lezioni private e le ripetizioni sono entrate nella legge di bilancio per il 2019. Lo hanno fatto con la misura esposta dai commi dal 13 al 16 del primo articolo, battezzata dai giornali come “la flat tax delle ripetizioni”.

Prima di analizzarlo, leggiamo il testo completo dei quattro commi che ci interessano:

  1. A decorrere dal 1° gennaio 2019, ai compensi derivanti dall’attività di lezioni private e ripetizioni, svolta dai docenti titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado, si applica un’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali con l’aliquota del 15 per cento, salva opzione per l’applicazione dell’imposta sul reddito nei modi ordinari.

  2. I dipendenti pubblici di cui al comma 13, che svolgono l’attività di insegnamento a titolo privato, fermo restando quanto disposto all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, comunicano all’amministrazione di appartenenza l’esercizio di attività extra-professionale didattica ai fini della verifica di eventuali situazioni di incompatibilità.

  3. L’imposta sostitutiva di cui al comma 13 è versata entro il termine stabilito per il versamento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Per la liquidazione, l’accertamento, la riscossione, i rimborsi, le sanzioni, gli interessi ed il contenzioso ad essa relativi si applicano le disposizioni previste per le imposte sui redditi.

  4. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le modalità per l’esercizio dell’opzione nonché del versamento dell’acconto e del saldo dell’imposta sostitutiva di cui al comma 13.

Andando con ordine, bisogna segnalare prima di tutto un fatto: questi commi riconoscono, all’interno di un documento pubblico di grande interesse generale in ambito economico, l’esistenza di una “attività di lezioni private e ripetizioni”. Un fatto senza dubbio positivo, considerando l’elevato numero di persone coinvolte e la grande mole di denaro mossa da questa attività. Riguardo a tali dati, lo studio citato continuamente è quello condotto nel 2016 da Lorenzo Castellani e Giacomo Bandini per la Fondazione Einaudi (ecco il link per leggere la sintesi dei risultati e le valutazioni finali dei due studiosi), che personalmente trovo molto interessante ma che non prenderei per oro colato, vista la difficoltà di un’indagine del genere: per fare solo qualche esempio, ci sono problemi legati all’anonimato, senza il quale molte famiglie non risponderebbero alle domande, e alla percezione negativa ancora diffusa riguardo ai fruitori di questi servizi, oltre al campione non proprio gigantesco valutato in questa occasione (983 famiglie intervistate) e alla grande variabilità di fattori come i prezzi e il numero di ore necessarie al recupero degli studenti.

Per avere un’idea un po’ più precisa di questo mare magnum, si può leggere un articolo scritto a metà del 2017 da Christian Raimo per Internazionale in cui, tra le altre cose, emerge come Castellani e Bandini potrebbero sottostimare il fenomeno delle lezioni private; i due studiosi, in base ai dati da loro ottenuti, stimano intorno al 50 % l’incidenza delle lezioni private sugli studenti delle scuole superiori, mentre Raimo, a partire dalle proprie esperienze personali e conoscenze, riflette sulle possibilità di alzare questo dato. Dal mio osservatorio privilegiato, posso dire che mi sento in linea con Raimo e che anche secondo me andrebbero alzate le percentuali di incidenza. A far questo, dopo un’indagine condotta con mezzi più imponenti di quelli messi in campo da Castellani e Bandini, dovrebbe essere proprio il ministero dell’istruzione, ma qui si arriva al nodo principale della questione: il disinteresse pubblico, a volerla vedere con occhi benevoli, o peggio l’interesse delle istituzioni a voler lasciare queste attività in una “zona grigia” legislativa.

E difatti, subito dopo il bell’incipit del comma 13, arriva la doccia fredda. Le lezioni private rimangono saldamente tra quelle attività su cui i documenti ufficiali si muovono spesso, quando lo fanno, in modo ambiguo, poco chiaro. Ambiti variegati che comprendono attività lavorative assai differenti, accomunate dall’essere percepite dalla maggior parte delle persone come transitorie, precarie, connotate da scarsa professionalità. Faccio alcuni esempi: le consegne dei riders, cioè dei fattorini; le pulizie domestiche e non solo; i traslochi e le attività di svuotamento di cantine, soffitte, eccetera; i lavori che prevedono servizi di cura e compagnia di vario tipo, da quelli di baby-sitting a quelli per gli anziani.

Perché scrivo questo? Perché al comma 13, subito dopo aver riconosciuto l’attività, si specifica “svolta dai docenti titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado”. Moltissimi di coloro che svolgono questa attività, dunque, rimarranno esclusi dal provvedimento. Vorrei scrivere “la maggior parte”, ma in assenza di studi affidabili (vedi paragrafi precedenti) sarebbe un’affermazione azzardata. Per gli studenti, i docenti universitari, gli ex insegnanti e per qualsiasi altra persona che non insegni in una scuola non cambierà nulla.

Studente coperto dai libri

Ma non è tutto. Oltre al problema appena discusso, che interessa soprattutto chi svolge queste attività, se ne aggiunge un altro che invece interessa l’intera comunità: una misura del genere è utile? Una misura del genere è conveniente a livello economico? Rispondere a questi interrogativi non è affatto semplice.

Sulla carta, la misura rischia di causare un minor gettito fiscale per l’Italia. Difatti, la scarsa percentuale di docenti che già paga le tasse sulle ripetizioni svolte (lo studio Einaudi di cui parlavo prima stima circa il 10 %) pagherà meno, dal momento che passerà da una aliquota progressiva variabile, comunque maggiore, a una “piatta” (di fatto regressiva) del 15 %. Eppure, dalle voci trapelate dai ministeri e dalle dichiarazioni pubbliche, è noto come la misura sia stata voluta in primis dal ministero dell’economia. La motivazione è abbastanza ovvia: la speranza, abbassando la tassazione sull’attività, è quella di spingere all’emersione del lavoro nero.

Come hanno già fatto notare numerosi commentatori sul web, però, la misura potrebbe non essere sufficiente. Mancano incentivi, pur noti, che avrebbero di certo spinto maggiormente all’emersione del nero in questo ambito lavorativo; uno su tutti: la possibilità di detrarre la spesa per le ripetizioni dalle tasse, che avrebbe spinto le famiglie stesse a rivolgersi a chi fornisce fattura o ricevuta, o a richiederla espressamente.

L’Associazione Laudes, come la Fondazione Einaudi e numerose altre realtà che operano in questo settore, chiede da tempo alle istituzioni di approfondire la tematica e di affrontare l’argomento con delle leggi ad hoc. Se la questione non verrà presa di petto dalle istituzioni e ci si limiterà a piccoli escamotage legislativi atti a far cassa, come il presente, difficilmente si risolveranno una serie di questioni legate a questo lavoro che, in vari modi, influenzano anche la fruizione del sistema scolastico da parte di studenti e famiglie.

Ripetizioni – Scegliere l’insegnante

Scegliere un insegnante privato non è semplice e non va fatto distrattamente. Non c’è solo il rischio di buttare i soldi dalla finestra. Esiste un rischio maggiore: aggravare la situazione, anziché risolverla. Come? Ecco un esempio: se Gino detesta la matematica a causa di un docente particolarmente severo e poco attento alle sue necessità, costringerlo a fare ripetizioni con un altro docente ancor più severo, magari tutti i pomeriggi, rischia di bloccarlo del tutto.

Sono così tanti gli elementi da valutare che, solitamente, si rinuncia e ci si affida al passaparola, alla fiducia riposta in un amico: se quell’insegnante va bene a lui, probabilmente andrà bene anche a me. L’alternativa, cioè affidarsi al caso, è peggiore: si prende il numero da un foglio per strada, appeso su una bacheca o una vetrina, oppure si spulcia internet alla ricerca di un annuncio che sembri più promettente degli altri. Poi si incrociano le dita.

Aiuto!

In 14 anni di esperienza nel campo, mi sono fatto un’idea delle qualità che una persona dovrebbe avere per svolgere al meglio questo mestiere. Non è un hobby, non è un lavoretto, vostro cugino o vostra nipote probabilmente sono alle prime armi e, anche se benintenzionati e in gamba, è davvero difficile che riescano a farlo bene come una persona che lo fa professionalmente (cioè per vivere) e con passione da oltre dieci anni.

Nonostante la mia esperienza come insegnante privato, però, la conoscenza più grande sui criteri che dovrebbero guidare questa scelta l’ho raggiunta negli ultimi 4 anni; da quando, cioè, ho contribuito a fondare Laudes e mi sono occupato di valutare gli aspiranti docenti. In 4 anni, ho letto circa 250 curriculum, ho svolto oltre un centinaio di colloqui con docenti che aspiravano a collaborare con la nostra associazione e ho seguito da vicino la crescita professionale di decine di loro.

Come per ogni lavoro, esistono dei criteri di giudizio per valutare la qualità degli insegnanti privati. Il problema, però, è che i criteri migliori sono quelli basati su dati che arrivano alla fine del percorso lavorativo: il rapporto dello studente con la materia è migliorato? I voti sono migliorati? È stato trasmesso un metodo di studio? Domande cui si può rispondere solo dopo un consistente lasso di tempo. Con una risposta negativa, però, vorrebbe dire che l’errore nella scelta è già stato commesso. Tornare indietro, purtroppo, non si può.

Spesso viene adottato un criterio puramente economico. Si cerca di spendere il meno possibile, magari, pensando ad assumere una figura più simile a un baby-sitter o a un carceriere.
“L’importante è che si rimanga seduti al tavolo per studiare, no?”. Questo approccio contiene due errori colossali. Del primo ho già parlato: il rischio è quello di peggiorare la situazione e, per unire al danno la beffa, di averlo fatto sprecando denaro. Il secondo è che comunque, decidendo di spendere poco, il problema di fondo rimarrà invariato: ho un budget basso, ok, ma come posso scegliere tra diversi docenti che mi propongono la stessa tariffa alla mia portata?

Ma sbaglia anche chi crede che basti spendere tanto. “Ma come? Se l’insegnante si fa pagare tantissimo, di certo sarà valido! I prodotti migliori sono quelli che costano di più, no?”. Purtroppo non è sempre così. Ne ho conosciuti, di docenti privati che chiedevano cifre molto alte: non sempre le cifre richieste sono in linea con il valore delle lezioni offerte.

Vi propongo due esempi reali in cui mi sono imbattuto: una giovane insegnante di latino e greco che, facendosi pagare 50 euro all’ora, aveva seri problemi nel tradurre una versione di latino di quarto anno del liceo classico; un docente universitario in pensione che, chiedendo ben 70 euro all’ora, faceva lezione contemporaneamente, nella stessa abitazione, a 4 studenti di scuole e anni differenti, facendoli tradurre da soli, in stanze separate, e passando ogni tanto a verificare se la traduzione fosse corretta. Quest’ultimo, con una certa nonchalance, accampava anche un argomento a sostegno del proprio operato: “L’importante è che si rimanga fermi a studiare, no?”.

Ma allora quali sono i criteri da adottare per la scelta di un insegnante privato? Per non farla troppo lunga, ecco una breve descrizione delle quattro qualità che ritengo fondamentali e che ognuno può valutare abbastanza rapidamente da sé: nel giro di due-tre lezioni è facile capire se e in che misura il docente le possieda.

maestro

CAPACITÀ DI COMUNICARE – Fondamentale per ogni tipo di docente, che dia ripetizioni o insegni in un’aula universitaria poco cambia. Quello che dovete cercare di capire con rapidità, però, è quanto il docente riesca a comunicare bene con voi (o con i vostri figli). Le lezioni private costituiscono un rapporto privilegiato, intimo: se vi accorgete di non riuscire a spiegarvi, di parlare due lingue diverse, di non trovarvi a vostro agio con il modo di parlare della persona che avete di fronte, probabilmente è meglio cambiare insegnante. La comunicazione tra studente e docente deve essere chiara, fluida, piacevole.

CONOSCENZA – Molti ritengono che il docente privato non debba essere un esperto conoscitore delle materie insegnate, ma qualcuno che invogli, faciliti o costringa a studiare, perché i contenuti si possono ricavare autonomamente dai libri, dal web o dagli appunti presi in classe. Alcuni ritengono valido il ragionamento anche per gli insegnanti scolastici. Sono in grande disaccordo con questo punto di vista: conoscere bene la materia che si insegna è importante non solo per migliorare la chiarezza nella comunicazione e per evitare di confondere le idee agli studenti, ma anche per risultare più coinvolgenti e appassionanti. Inoltre, conoscendo la materia e i programmi scolastici, si possono stabilire con maggior sicurezza le nozioni fondamentali e quelle accessorie, si può impiegare il tempo nel modo migliore e si possono dare consigli sui metodi di studio più adatti per ciascun argomento. Si può pensare che questa qualità sia difficile da verificare, per un non esperto, ma ci sono alcuni elementi che possono aiutare: la sicurezza del docente nelle spiegazioni, per esempio, oppure i dubbi e i silenzi che lo attanagliano troppo spesso quando gli vengono poste domande improvvise.

EMPATIA – Un conto è la capacità di comunicare bene, un altro è la capacità di mettersi nei panni del proprio studente. Il buon docente privato deve mantenere sempre il polso emotivo della situazione: ci sono momenti in cui bisogna dare qualche stimolo extra per superare il languore di un pomeriggio troppo afoso, altri in cui la tensione per un compito imminente è alle stelle e c’è bisogno di saper tranquillizzare lo studente… Per valutare le capacità empatiche di un docente, bisogna ascoltare il proprio istinto: se il docente sa “leggerti”, dovresti accorgertene. Se noti una distanza emotiva che non varia col passare degli incontri e che ti risulta d’ostacolo al godimento delle lezioni, valuta la possibilità di cambiare insegnante. Questa capacità, insieme alla precedente, serve anche a instaurare un rapporto di rispetto reciproco e consente al docente di coltivare la propria autorevolezza senza imboccare la scorciatoia dell’autoritarismo.

DIAGNOSTICA E PROGRAMMAZIONE – Queste abilità sono le più sottovalutate, eppure per l’insegnante privato risultano tra le più importanti. Le metto insieme perché mi sembrano afferire alla stessa capacità: quella di analizzare gli studenti ragionando. Solitamente le lezioni private o le ripetizioni iniziano con uno scopo ben preciso: superare un debito, raggiungere una conoscenza sufficiente in una lingua straniera, passare un esame, acquisire alcune determinate nozioni. Per questo, affidarsi all’improvvisazione può andare bene per qualche incontro, ma alla lunga non dà grandi frutti. Bisogna da subito cercare di capire quali sono i problemi, quale approccio sia meglio adottare: per questo non credo molto nel valore degli incontri singoli, o comunque nei percorsi troppo brevi. Riuscire a diagnosticare i problemi fondamentali è un’abilità che si affina nel tempo, essenziale per impostare bene il lavoro. Ben presto, effettuata la corretta diagnosi, c’è bisogno di una programmazione esatta, che possa render conto dei progressi effettuati e dei passi ancora da fare; anche per una questione di trasparenza nei confronti di chi, in fin dei conti, sta pagando per un servizio che non può e non deve durare all’infinito.

 

Autorevolezza o autoritarismo?

Cosa hanno in comune il dibattito sui problemi legati alla divulgazione scientifica contemporanea e quello sulla scuola? Apparentemente poco, eppure credo che un filo conduttore si possa ritrovare nella questione dell’autorità.

La parola “autorità”, sulla cui origine invito a leggere il saggio di Maurizio Bettini Alle soglie dell’autorità (contenuto nella raccolta L’autorità, curata da Bruce Lincoln e tradotta in italiano nel 2000 da Einaudi), deriva dal latino “auctoritas”. Tra le varie accezioni del termine latino “auctor”, oltre a colui che fa crescere”, troviamo il “dare successo”, il “condurre a un esito felice, prospero”. Dunque l’auctor è colui che crea, ma anche il maestro, il modello, colui che è dotato di credibilità e rende credibile ciò che dice o promette perché ha già dimostrato, conducendo a esiti felici, il valore, la veridicità delle proprie affermazioni e iniziative. Una sanzione sociale ricevuta dall’esterno, dagli altri, e che non si basa tanto sul proprio ruolo formale e giuridico, quanto sulla credibilità conquistata  con il tempo presso coloro con i quali si interagisce.

 cicero

Dal sostantivo sono nati due aggettivi: “autoritario” indica, secondo il vocabolario Devoto-Oli, qualcuno “che impone con intransigente fermezza la propria volontà o tende ad una esagerata affermazione della propria autorità”, mentre con “autorevole” si intende colui “che gode di stima e credito notevole, che ispira riverente fiducia”. Apparentemente di segno opposto, i due aggettivi sottolineano in modo complementare le diverse prospettive per leggere la questione dell’autorità, oscillante tra imposizione, accettazione più o meno volontaria e rifiuto.

Tra i due aggettivi, dando per valide le riflessioni etimologiche di Bettini, “autorevole” sembra aver conservato una maggiore vicinanza al sostantivo originario, mentre “autoritario”, derivato dal francese autoritaire nella seconda metà del diciannovesimo secolo, sembra aver subito l’influenza della specializzazione in ambito politico; non a caso, l’unico esempio di uso del Devoto-Oli è proprio “stato autoritario”, cioè “quello a organizzazione accentrata e gerarchica […] nel quale i poteri sono esercitati dall’esecutivo senza controllo (o con controllo limitato) da parte di altri organi”.

Quale dei due aggettivi sarebbe auspicabile applicare a un docente o a un divulgatore scientifico?

Ad alcuni questa domanda potrebbe apparire retorica, eppure non lo è: contano molto la propria visione del mondo e il modo in cui ci si posiziona di fronte alla questione dell’autorità. Sembra uno di quei dilemmi esistenziali alla Hobbes versus Locke, alla “gli uomini sono tendenzialmente buoni” contro “gli uomini sono tendenzialmente cattivi”. Siete per un’autorità autorevole o autoritaria? Il problema, però, è che soprattutto nel caso dei docenti la questione è più complessa, dal momento che l’autorità viene esercitata nei confronti di persone in fase di formazione, in larga parte minorenni, dunque non sullo stesso livello di chi dovrà esercitare l’autorità, se non altro dal punto di vista legale.

vignetta kidelka

È di pochi giorni fa un articolo di Paola Mastrocola che, come in passato, non ha perso l’occasione fornita dai recenti fatti di cronaca per ribattere sul tasto dell’autorità intesa in senso repressivo. Dopo aver elencato alcune “scenette diverse e lontane tra loro”, Mastrocola conclude in modo un po’ trumpiano che bisognerebbe dotare genitori e insegnanti di armamento pesante e convincerli a usarlo senza remore, in modo autoritario, nei confronti dei giovani. Nell’articolo trovano spazio alla rinfusa, senza troppe giustificazioni, idee e argomenti di vario tipo: la crisi della democrazia, i social network, i bambini che fanno chiasso ai ristoranti, l’edonismo, le piattaforme di condivisione video, il bullismo, l’ipse dixit, l’uno vale uno. “O tempora o mores!”, insomma, come da tradizione. Un momento che svela più di quanto intendesse, credo, è la quarta scenetta, in cui Mastrocola racconta di come sia stata totalmente ignorata durante un’ora di supplenza, nel suo ultimo anno di insegnamento. Che fai, in una situazione del genere, da buon docente? “Ti innervosisci. Ti sale una collera. Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto.” Non proprio da manuale. E non paga del risultato prodotto (“Niente.”), cosa ti combina subito dopo? “Mi è partito un discorso veemente, edificante, moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere….” che ha dato frutti ancora peggiori (“Un disastro.”). A quanto pare, oltre a non ricordare che i puntini di sospensione di solito sono tre, Mastrocola non ha tratto insegnamento da un’occasione in cui, da giovane (ce lo racconta nella scenetta successiva), aveva assistito a una splendida lezione di supplenza: il docente, anziché innervosirsi e lanciare ordini e divieti a caso, si era prodigato in un racconto su Konrad Lorenz e i suoi esperimenti con le anatre. Risultato? La classe aveva ascoltato la lezione con interesse.

Beh, con una classe disattenta è ovvio che non si può nemmeno tentare di far lezione”. Ma siamo proprio sicuri che il metodo migliore per catturare l’attenzione dei ragazzi sia innervosirsi, farsi salire la collera e tentare di lanciare ordini e divieti a caso per imporre la propria autorità? Proviamo un attimo a tornare nei panni di un giovane studente: siamo sicuri che ascolteremmo volentieri un anziano sconosciuto, arrabbiatosi dopo qualche minuto perché la propria autorità non viene data per scontata e perché nell’aula non regna un silenzio tombale?

La domanda retorica ne introduce una reale: i maestri e i divulgatori lavorano correttamente allo scopo di acquisire autorevolezza? Probabilmente molti credono di dover essere ritenuti autorevoli dato il proprio percorso di studi. Quando scoprono di doversi conquistare l’autorevolezza giorno dopo giorno, avendo a che fare con persone sconosciute, alcuni scelgono la scorciatoia dell’autoritarismo: esercitare in modo dispotico le prerogative del proprio ruolo, senza preoccuparsi del rapporto con i fruitori del proprio insegnamento.

Le persone vanno non solo informate, ma convinte che un qualcosa stia proprio in quel modo e non in un altro. Nulla di nuovo sotto il sole, per chiunque abbia letto Contro il metodo di Feyerabend in cui si parla, tra le altre cose, della rivoluzione scientifica galileiana; non basta inventare il cannocchiale e dimostrare di avere ragione (almeno per il momento): bisogna convincere gli altri. Ovviamente, i metodi di persuasione e le parole dovranno essere differenti: la comunità scientifica, i decisori politici e l’opinione pubblica non si convincono nella stessa maniera, così come un docente insegnerà in un modo all’interno di una classe di 30 studenti minorenni, in un altro modo se dovrà seguire un gruppo di 4 adulti lavoratori, in un altro ancora se dovrà educare un infante.

La rinuncia a differenziare i metodi divulgativi e l’impigrirsi dell’ambiente accademico lasciano ampio spazio a chiunque abbia il desiderio e la capacità di parlare all’opinione pubblica.

Anche perché, come scriveva il filosofo e scienziato politico Giuseppe Rensi nel 1920, nelle conclusioni di Filosofia dell’autorità

«Può essere seducente e doveroso insorgere contro l’autorità e il conformismo, quando il loro impero è esteso, formidabile e potente, su tutte le sfere della vita politica, economica, religiosa, scientifica, morale dell’individuo, e, combattendoli, riuscire a sottrarre ad essi, e a rimettere alla libertà di questo, almeno un qualche margine di essa vita». Un pensiero che, credo, sarebbe sottoscritto con grande rapidità da quanti, online e non solo, si battono per una discussione pubblica sui temi all’ordine del giorno, tra cui le guerre, le politiche monetarie e di austerità economica, le scelte in ambito medico per sé stessi o per i propri familiari.»

Pensiero che forse sarebbe stato guardato con simpatia anche da Platone, che nel settimo libro della Repubblica, al capitolo 4, analizzando il racconto della caverna svolto poco prima, così si esprime sui sapienti che si isolano nello studio, rifiutandosi di ridiscendere nella caverna per condividere non solo le proprie conoscenze, ma il proprio stile di vita con il resto dei concittadini:

«In base alle nostre premesse non è mai logico affidare lo Stato agli incolti e a chi ignora la verità, ma neppure a colui al quale viene permesso di passare tutta la sua esistenza nello studio: a quelli, perché nella vita non hanno un unico scopo a cui tendere in ogni loro azione privata e pubblica; a questi, perché non lo faranno volentieri, ritenendosi già in vita trasferiti nelle isole dei beati.»
«È vero» disse.
«Dunque noi fondatori dello Stato abbiamo il compito di costringere le nature migliori ad apprendere ciò che prima abbiamo definito la cosa più importante, ossia a contemplare il bene e a compiere quella ascesa; e quando siano saliti e abbiano visto abbastanza, non si deve permettere loro ciò che ora si permette.»
«Che cosa?»
«Di rimanere lassù rifiutandosi di scendere di nuovo fra quei prigionieri e di partecipare alle loro fatiche e ai loro premi, frivoli o seri che siano.»

 

 

Ripetizioni private: farle o non farle?

Su ciascuna arte molti argomenti, sia contro che a favore

«O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice delle nuove tecniche, altra cosa è giudicare quale grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno»
(Platone, Fedro, 274c)

Theuth, inventore della scrittura
Theuth, inventore della scrittura

In un noto passo del dialogo platonico Fedro, Socrate racconta di quando il dio Theuth fece visita al re egizio Thamus, recando in dono varie tecniche da lui inventate per migliorare le condizioni di vita della popolazione: «Theuth venne presso il re e gli rivelò le sue arti, dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli egizi. Il re gli chiedeva quale utilità comportasse ciascuna arte, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo e lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth, sia contro che a favore».

Ogni tecnica o tecnologia può essere considerata positivamente o negativamente, a seconda della prospettiva da cui la si guarda, degli obiettivi, delle inclinazioni e dell’uso che se ne fa. Le lezioni private o ripetizioni, intese come attività di supporto allo studio, superamento di problemi specifici e mezzo per giungere a una più approfondita conoscenza di qualcosa, possono essere considerate come uno specifico insieme di tecniche.

Alcuni ritengono che il lavoro del docente sia sempre lo stesso: scuola, università, lezioni individuali o a piccoli gruppi, all’aperto o in un’aula dotata di strumenti più o meno avanzati tecnologicamente. Che cambia? L’importante è saper comunicare con precisione e chiarezza i contenuti, no? Chi la pensa in questo modo, può anche vedere l’insegnamento privato come una preparazione all’insegnamento in classe e l’insegnante privato come un docente che non è riuscito a passare di livello. Io la vedo in modo molto diverso e ho già scritto qualcosa al riguardo.

L’insegnamento, pur mantenendo degli aspetti comuni, è un’attività che varia moltissimo in base al contesto, alle persone coinvolte e a ciò che viene insegnato. Un allenatore che spiega alla sua squadra uno schema di gioco userà altre tecniche, rispetto a un docente universitario che vuole insegnare agli studenti, in un laboratorio di chimica, come riconoscere e riprodurre un tipo di reazioni: il tono di voce sarà diverso, la gestualità sarà diversa, ciò che è permesso fare all’insegnante differirà notevolmente; il professionista dell’insegnamento, in entrambi i casi, dovrà fare i conti con i limiti e le possibilità della situazione in cui si trova.

Le ripetizioni non sono sempre un bene

«Buongiorno, sono *la signora Rossi*. Mio figlio ha dei problemi in *latino*».

Facendo le dovute sostituzioni, ecco una frequente frase d’esordio di chi ci contatta telefonicamente. Quando ci sentono replicare «Di quali problemi parliamo?», non tutti riescono a rispondere. Se dopo aver ascoltato le spiegazioni del genitore, poi, tentiamo di dissuaderlo dall’idea di far studiare il figlio con un docente privato, i dubbi iniziali degli interlocutori si trasformano in vero e proprio stupore.

L’idea che le lezioni private siano in ogni caso qualcosa di positivo è difficile da combattere. È radicata nella mentalità del sacrificio secondo cui, a prescindere dalle motivazioni e dalle modalità, gli sforzi e i sacrifici “pagano”. Può sembrare un paradosso che, per far sforzare i propri figli, si chiamino dei docenti di sostegno; è un paradosso solo apparente: il genitore che intende lo studio in questo modo, vedrà il docente privato come un’estensione del proprio corpo, come un carceriere il cui scopo principale è tenere lo studente fermo al tavolo, di fronte al libro, per il maggior numero di ore possibile; non per aiutarlo nello studio, quindi, ma per costringerlo a studiare.

Le ripetizioni, come ogni mezzo e strumento, sono adatte ad alcuni contesti, con certe premesse; in altri contesti e con altre premesse rischiano di aggravare i problemi, anziché risolverli. L’esempio del paragrafo precedente è indicativo di un tipo di approccio che noi di Laudes cerchiamo di non avere; sempre più spesso, invece, ci troviamo in situazioni del genere. Molti genitori che ci contattano già fanno seguire i figli da docenti privati e sono in cerca di ripetizioni in altre materie. In queste situazioni, diventa difficile anche trovare un accordo sui giorni in cui vedersi, perché i ragazzi hanno ogni pomeriggio impegnato: sport, musica, lingue, ripetizioni… ogni cosa va bene, purché al ragazzo non venga lasciato tempo libero. A volte, persino il tempo libero viene programmato. Così, quando i ragazzi scoprono che le uniche due ore libere del giovedì pomeriggio saranno improvvisamente riempite dal docente di matematica, riuscire a farli appassionare alla matematica diventa una missione impossibile.

Il paragone che propongo sempre ai genitori, magari increduli di fronte a un intervento rifiutato, è quello con le stampelle. L’uso delle stampelle ha lo scopo di facilitare il corretto recupero delle capacità di deambulazione, rispettando un principio di gradualità nel ripristino del carico che gli arti devono sopportare. A un certo punto, però, il carico va ripristinato: se l’arto non si usa più, il recupero delle capacità deambulatorie ristagnerà e si interromperà. Alla fine, il rischio è quello di non riuscire più a usare l’arto. Uscendo dalla metafora, le lezioni ottengono il proprio scopo quando riescono a stimolare lo studente, ad appassionarlo, a colmare delle lacune pregresse che impediscono lo studio, a fornire alle menti la scintilla che le accenda, non quando si traducono in una nuova costrizione subita dallo studente controvoglia. Prima di chiamare un docente privato, sarebbe sempre il caso di discutere la cosa con chi poi dovrà effettivamente vivere le lezioni in prima persona.

Le ripetizioni non sono sempre un male

Mi è capitato di sentire di docenti di scuola superiore che comunicano ai ragazzi la propria contrarietà alle lezioni private, giungendo a minacciare vere e proprie ritorsioni. Mi sono interrogato su questo fenomeno: perché un docente dovrebbe essere contrario allo studio assistito? Ne ho discusso con alcuni colleghi della scuola pubblica. L’argomento principale è che le lezioni private non spingerebbero i ragazzi ad apprendere in modo autonomo; argomento molto discutibile, per vari motivi.

Prima di tutto, si dovrebbe capire in cosa consisterebbe il supporto allo studio e in che modo tale supporto sarebbe fornito. I problemi individuali e di contesto alla base degli insuccessi scolastici sono infiniti: il docente non conosce o non è in grado di spiegare un argomento? La classe è troppo numerosa e il docente non riesce a dedicare tempo ai singoli studenti e ai loro problemi nel comprendere certi argomenti? La studentessa sta vivendo un trauma familiare o personale? Dei problemi cognitivi complicano l’apprendimento di una materia? Alcuni compagni di classe rendono la vita a scuola difficile? Non tutti cercano un aiuto nello studio per gli stessi motivi: condannare in toto lo studio assistito senza conoscere i presupposti che hanno spinto uno studente a richiederlo non mi pare un atteggiamento condivisibile.

Il docente privato può condurre la lezione in moltissimi modi: limitandosi a spiegare dei concetti particolarmente complicati allo studente che non ha ancora gli strumenti adeguati per comprenderli; fornendo stimoli differenti rispetto a quelli dati in classe dall’insegnante; facendo fare esercizi aggiuntivi o svolgendo quelli assegnati al posto dello studente. Tutte queste azioni conducono a risultati differenti (non sempre positivi per la crescita intellettuale degli studenti): il modo in cui le lezioni private vengono condotte è essenziale e l’enorme differenza nei modi di condurre tali lezioni rende ridicola ogni generalizzazione al riguardo.

Poi, ci si dovrebbe intendere su cosa voglia dire “autonomia educativa”. L’argomento della carenza di autonomia non suona troppo convincente, se proposto da chi lavora in un’istituzione che, per la maggiore, fa della disciplina e dell’eteronomia dei cavalli di battaglia. Quante volte abbiamo sentito paragonare la scuola a una “palestra di vita” intendendo, con ciò, un’esperienza di accettazione passiva? Secondo questa tesi, i ragazzi dovrebbero imparare a stare zitti e a sopportare qualsiasi cosa, perché nella vita, molto probabilmente, gli capiterà di dover sottostare a qualche superiore incapace e antipatico ed è meglio se si abituano da giovani. La calma e il rapporto intimo che si creano in una lezione a tu per tu, invece, possono dar modo al docente privato di lavorare maggiormente sullo sviluppo del pensiero critico e quindi di mirare proprio al conseguimento di una maggiore autonomia intellettuale.

La grande quercia simbolo di Laudes

Tre anni di Laudes!

Eccoci arrivati a spegnere tre candeline. Un piccolo traguardo. Un momento per riflettere e fare il punto della situazione, per capire se la Laudes che stiamo costruendo corrisponde all’idea con cui cominciammo il nostro percorso il 24 agosto del 2014.

Nel celebrare qualcosa è impossibile evitare un po’ di retorica nella sua accezione più popolare, ma vorremmo partire con pochi, significativi dati sui primi tre anni di vita di Laudes. Grazie al lavoro di circa 60 docenti collaboratori, di cui 45 solo nell’ultimo anno, abbiamo dato aiuto a oltre 300 studenti con problemi di vario tipo legati allo studio.

Ci siamo interessati a ogni livello di istruzione, dalle scuole elementari alle università, passando per medie e superiori; abbiamo organizzato dopo-scuola ludodidattici per bimbi piccoli; abbiamo affrontato praticamente ogni disciplina insegnata nelle scuole pubbliche e private, dalle più frequentate e richieste alle più specialistiche; abbiamo fornito servizi di assistenza personalizzati per studenti con sindromi e disabilità cognitive e/o fisiche, disturbi specifici dell’apprendimento, bisogni educativi speciali o problemi familiari più o meno gravi; abbiamo aiutato a preparare esami universitari e a redigere tesi di laurea; abbiamo corretto bozze, tradotto testi e insegnato lingue a persone di varie età.

Ma Laudes non è solo didattica e supporto per testi e traduzioni. Ci siamo interessati altrettanto (e, in certi periodi, addirittura di più) all’aspetto divulgativo e ludico, organizzando lezioni aperte al pubblico e in diretta streaming, seminari, presentazioni di libri, uscite con gruppi di studenti e docenti per visitare mostre e per assistere a spettacoli teatrali, tornei e serate di gioco fini a sé stesse, giusto per il piacere di ridere e bisticciare insieme.

Andiamo orgogliosi anche delle cose che non abbiamo fatto. Per esempio non abbiamo fatto i compiti a casa al posto dei nostri studenti; non li abbiamo aiutati a distanza, durante i compiti in classe; non abbiamo scritto tesi di laurea al posto dei laureandi; non abbiamo lucrato sulle ansie delle famiglie, e in questo modo abbiamo evitato stressanti sovraccarichi di lavoro per quegli studenti che, a volte, vengono trattati dai genitori come recipienti per nozioni; non abbiamo approfittato del lavoro dei docenti, né li abbiamo trattati come sottoposti per ottenere un pur minimo e scabro piacere dall’esercizio del potere; non abbiamo selezionato i docenti sulla base di simpatie o amicizie, ma sempre pensando agli studenti con cui avrebbero dovuto interagire, cercando di diversificare i talenti e le attitudini; non abbiamo evitato discussioni, anche serie, su questioni concrete o di principio inerenti alla didattica o all’organizzazione, scegliendo di adoperare il metodo del consenso e giungendo a decisioni di compromesso tra le diverse visioni che animano il gruppo.

In questi tre anni hanno collaborato con noi persone di enorme valore. Per molti, quello dell’insegnamento privato è un lavoro transitorio; dunque, non ci siamo stupiti quando alcuni dei nostri migliori docenti ci hanno salutato per tentare l’ingresso nel lavoro dei loro sogni: laboratori chimici, informatici, aziende, una totale dedizione all’istruzione pubblica, sono molti gli ambiti che ci hanno costretti a salutare questo o quell’altro collaboratore. Ciononostante, ricordiamo con enorme piacere il periodo trascorso insieme e il clima di fraterna giovialità creatosi, grazie al quale siamo rimasti in ottimi rapporti con quasi tutti.

La sfida principale che ci attende ora, con il crescere del gruppo e la prossima apertura di nuove sedi nella città di Roma, è quella di mantenere la passione, l’atteggiamento e i metodi messi in pratica fino a questo momento. Non sarà semplicissimo e già adesso, a volte, il carico di lavoro non remunerato che molti di noi svolgono cresce fino ad assorbire completamente il tempo libero e le energie. Ce la metteremo tutta, traendo nuova linfa dalle molte soddisfazioni che ricaviamo dall’insegnamento e dalla gioia dei nostri studenti!

terzo compleanno

La grande quercia simbolo di Laudes

L’insegnamento tra scuola e lezioni private

Laudes è nata poco più di tre anni fa, anche se dall’idea alla realizzazione è trascorso del tempo. Dopo aver soppesato le vie da percorrere, abbiamo cercato man mano di risolvere vari problemi. Trovare il luogo idoneo per la sede e allestirla, per esempio, è stato uno dei primi e più importanti. Alla fine abbiamo aperto, fronteggiando la burocrazia e le incombenze organizzative, senza alcun capitale alle spalle, senza finanziamenti né spintarelle: veramente da zero.

Il primo anno è stato duro, dovendo fare tutto in pochi. Crollavamo esausti la sera, dopo l’ultima chiacchierata con una mamma o un papà, oppure di notte dopo una riunione. Metà giornata a fare lezione, l’altra metà a organizzare il lavoro. Tutto per vivere insegnando. Sogno nato chissà come; forse per amore verso un insegnante passato, forse per le ore in cui i nostri genitori ci hanno raccontato o letto delle storie.

Ci chiamiamo “insegnanti” perché insegniamo

Ci chiamiamo “insegnanti” o “docenti”; ogni tanto un ragazzo mi chiama “professore” e io sorridendo gli minaccio uno scappellotto; ogni tanto un bimbo mi chiama “maestro” e io gli rispondo «Seee… magari!». Alcuni difensori della vera fede, rimarcando la propria presunzione di superiorità, ci dicono «Vabbè, ma voi fate ripetizioni»; questa cosa, anche se mi sforzo di sorridere di fronte alla stupidità altrui, riesce sempre a farmi un po’ incazzare. Il problema non è l’uso della parola “ripetizioni”, sebbene non sia del tutto appropriata al modo in cui insegniamo, da cui la mia preferenza per l’espressione “lezioni” (quando si legge) e altre tra cui “incontri” o “chiacchierate” (quando gli studenti hanno particolari problemi con la lettura e quindi principalmente si parla); mi incazzo per il tono di supponente superiorità.

Essendo anche un discreto percussionista, ho già avuto modo di affrontare la questione: si suppone che si tratti di una cosa semplice, adatta anche a qualcuno alle prime armi e senza preparazione specifica; quindi viene fatta da tantissime persone e spesso in modi sbagliati, a volte aggravando i problemi degli studenti, anziché risolvendoli. Elio canta «Piantala con ‘sti bonghi» e a me dicono «Perché non la smetti con ‘ste ripetizioni e non ti trovi un lavoro serio?». Si tratta, appunto, di una supposizione. Nel caso della nostra associazione, una supposizione del tutto errata: i docenti hanno tutti delle grandi capacità disciplinari e didattiche. Ci siamo selezionati in modo fin troppo severo; tra i vari aneddoti che potrei citare a sostegno della tesi, mi piace ricordare quella volta in cui un amico romano mi disse «Aò, m’hanno preso a fare il dottorato a New York ma non a insegnare a Laudes…!».

A questo punto, ci si può chiedere (e a volte me lo chiedono) «Se amate a tal punto l’insegnamento, perché non insegnate in una scuola pubblica?». Questa domanda si ricollega a un dilemma sul quale ho dovuto riflettere a lungo: per parlare chiaro, bisogna avere l’animo chiaro. La risposta potrebbe essere fraintesa, ma ciò che tenterò di chiarire è fondamentale per l’intera attività dell’associazione.

Potremmo insegnare in una classe. Alcuni di noi già l’hanno fatto, altri lo fanno e dividono il proprio tempo tra l’insegnamento in classe e quello con l’associazione. Da un lato, non ci manca la preparazione sui contenuti: tutti i docenti hanno alle spalle un percorso accademico brillante fatto di centodieci cum laude, premi di laurea, dottorati. Dall’altro, non ci manca nemmeno la pratica didattica: alcuni insegnano privatamente, con buoni risultati, da oltre dieci anni. Perché, allora, insegnare con l’associazione?

La scuola pubblica, ma non per tutti

Prima di tutto bisogna riflettere sui percorsi che lo stato, negli ultimi anni, ha destinato a chiunque desiderasse insegnare nelle scuole pubbliche. Percorsi irti di difficoltà, burocrazia, falsità (nemmeno sempre smentite), modifiche in corso d’opera e non solo. Il Tfa, percorso formativo a pagamento che, dalla laurea, ha condotto all’abilitazione per gli aspiranti docenti, ha avuto durata annuale, con lezioni obbligatorie da seguire, compiti a casa e un periodo di tirocinio da svolgere in classe che si è spesso trasformato in lavoro gratuito al posto degli insegnanti titolari. Come accedere a questo percorso dovendosi mantenere autonomamente? Come conservare un posto di lavoro, senza poter lavorare per mesi e mesi? Soluzioni: farsi mantenere per l’intera durata del Tfa o avere già da parte una cifra bastante a stare un lungo periodo senza lavorare. Non tutti hanno potuto farlo: è stata attuata una sorta di selezione su base economica ancor prima di cominciare la “lotta meritocratica” per i posti in palio. In molti, comunque, hanno avuto la temerarietà e la fortuna di poter intraprendere questo percorso. Senza alcuna certezza, oltretutto, dato che l’abilitazione sarebbe stata solo il requisito per poter poi partecipare a un concorso.

Sono esagerato? Sto calcando troppo la mano su disagi cui qualsiasi tipo di lavoratore è sottoposto? Si legga rapidamente (ché simili persone non meriterebbero il tempo che gli si dedica, se non ricoprissero per chissà quale motivo ruoli di grande importanza) la dichiarazione di Stefania Giannini, ex Ministro dell’Istruzione, secondo la quale i Tfa e i Pas (percorsi di abilitazione ora aboliti) sarebbero stati «fabbriche di illusioni che hanno prodotto solo frustrazioni per chi li ha frequentati (pagando) e per chi vi ha insegnato».

Superati questi ostacoli, comunque, cosa che alcuni validi laureati e amici hanno fatto, sarebbe giunto il momento dell’agognata classe! Mèta ambita più che oasi nel deserto, ma non per questo fine ultimo delle sofferenze. Anzi, inizio di un nuovo tipo di sofferenze, più subdole perché mischiate al dolce del traguardo raggiunto. Un veleno ad azione lenta.

Vantaggi dell’insegnare in un’associazione

Tantissimi sono i problemi che affliggono l’insegnamento scolastico, in questo momento della storia italiana. Su molti siti dedicati al mestiere, non passa giorno in cui non emergano nuove carenze o questioni, intrinseche all’attività oppure elaborate dall’agire umano: strampalate circolari ministeriali; l’ottusità di un preside, di una famiglia, di uno studente o di un collega; la burocrazia che avviluppa intere giornate; l’incertezza stessa della possibilità di insegnare e imparare che prende varie forme, tra cui quella nota col nome di “supplentite”. Affronterò ora brevemente solo alcuni di questi problemi. Ci tengo anche a precisare che ritengo l’insegnamento pubblico uno dei pilastri della civiltà contemporanea. Mi riservo di spiegare in altra occasione, data la lunghezza già eccessiva di questo intervento, perché credo che il tipo di insegnamento da noi praticato non contrasti affatto con le istituzioni scolastiche, ma abbia invece delle potenzialità sinergiche da non sottovalutare.

Esempio estremo di "classe pollaio": i 54 studenti di questa foto di classe sono gli alunni che nel 2011 frequentavano il terzo anno del liceo scientifico Galilei di Modica (Ragusa). Fonte: La Repubblica.
Esempio estremo di “classe pollaio”: i 54 studenti di questa foto di classe sono gli alunni che nel 2011 frequentavano il terzo anno del liceo scientifico Galilei di Modica (Ragusa). Fonte: La Repubblica.

Ecco una delle difficoltà per me più importanti per tutti i docenti che credono nel proprio lavoro: l’omologazione dell’insegnamento nelle scuole pubbliche. Questo aspetto è strettamente legato alla necessità dello Stato di controllare i programmi scolastici per garantire, sull’intero territorio nazionale, il raggiungimento di eguali obiettivi didattici; consideriamola, dunque, una difficoltà intrinseca al lavoro di insegnante pubblico. Ciò che potrebbe essere declinato in modo intelligente, tuttavia, garantendo le specificità di ciascun insegnante e la tanto celebrata ma poco praticata autonomia degli istituti scolastici, viene spesso perseguito con l’inibizione di ogni metodo “diverso”, di ogni tentativo di andare al di là della mera ripetizione di nozioni, “depurando” le aule dalla personalità dei docenti. Molti docenti riescono ancora a comportarsi “diversamente”, ma ne pagano il fio, sopportando infinite battaglie contro le istituzioni e parte di colleghi e genitori. E non voglio certo dire che un metodo sia valido solo in quanto “strano”, ma la “stranezza” viene sempre più spesso usata come etichetta aprioristicamente negativa, inibendo sul nascere, magari, anche tentativi didattici di alta qualità.

Nelle scuole, purtroppo, si è esposti agli strali di chiunque si svegli con l’umore di traverso. Questo influisce soprattutto sulla libertà linguistica e comportamentale del docente. Non è facile da spiegare, ma ci sono momenti in cui una parolaccia o un gesto inusuale possono avere un grande valore didattico o addirittura educativo. Conosciamo tutti il film L’attimo fuggente: il film mostra la fine cui sono destinati molti dei docenti che non si allineano alle direttive, che mostrano originalità nell’approccio e nel linguaggio. Ciò è richiesto dalla scuola pubblica che necessita di standard. Come ho già detto, però, la sclerotizzazione delle procedure, delle etichette e dei regolamenti favorisce la marginalizzazione del diverso, l’accanimento nei confronti di chi tenti vie meno battute. Operando un’adeguata valutazione e selezione che garantisca la qualità del docente, l’insegnamento svolto nell’associazione offre la possibilità di usare metodi ed espedienti eterogenei, adeguati alla singola situazione didattica e alle esigenze dello studente, della famiglia e del docente.

Quanti docenti, a scuola, hanno mai provato a salire sulla cattedra?
Quanti docenti, a scuola, hanno mai provato davvero a salire sulla cattedra o sui banchi?

Le condizioni strutturali della scuola pubblica sono assai complicate, come già accennato: non è difficile trovare classi di 30 studenti e oltre; il tempo a disposizione per ciascuna materia è scarso; ciononostante, la quantità di cose da imparare rimane sempre più o meno la stessa. L’approfondimento e la chiarezza comunicativa che si riescono a raggiungere con un piccolo numero di studenti sono enormemente superiori.

L’autorità del docente, a scuola, è messa in dubbio ogni giorno e diventa sempre più complicato far percepire il valore del proprio lavoro e delle discipline che vengono insegnate. Lo si riscontra nel modo becero che i presidi e i genitori usano per trattare gli insegnanti, nelle frecciatine derisorie dei politici e degli opinionisti in televisione, nel disincanto che gli stessi insegnanti faticano a nascondere tra le righe dei propri scritti o tra le parole che pronunciano in pubblico e in privato. Lavorando in un’associazione che garantisca degna retribuzione e libertà di azione, nonché la possibilità di rifiutare un incarico da parte dei docenti e i docenti da parte delle famiglie, l’autorità e la fiducia reciproche vengono costantemente monitorate e salvaguardate.

Termino qui il breve e superficiale elenco sperando di aver almeno cominciato a chiarire, con questi argomenti, il perché alcuni di noi facciano questa scelta. Conto di riprendere il tema in prossimi interventi, approfondendo alcuni punti e, soprattutto, spiegando perché l’universo didattico dell’associazionismo abbia delle potenzialità sinergiche rispetto al mondo della scuola pubblica (e privata) ancora da valutare e apprezzare più seriamente.

Gli studenti sembrano apprezzare una lezione tarata sulle proprie esigenze...
A Laudes, gli studenti sembrano apprezzare una lezione tarata sulle proprie esigenze…