È una mattina fin troppo calda per essere febbraio, e per la prima volta mi appresto a entrare in una scuola in veste “ufficiale”, per tenere un corso di “recupero” di competenze base.
Si tratta di una situazione nuova per me e un po’ di preoccupazione sale: è vero che l’esperienza non mi manca, sono anni che insegno matematica e fisica con Laudes, ma principalmente in modalità uno a uno. Come andrà con un nutrito gruppo di ragazzi e ragazze, dentro a una scuola? Ho intenzione comunque di dare il massimo: preparo una bella scaletta con diverse attività, un gioco iniziale per sorprenderli, i collegamenti tra il programma di matematica e il gioco che voglio proporli. Insomma, pianifico ogni cosa.
Ma come sempre accade, entro in classe e c’è una prima sorpresa: dovevano essere studenti di un primo anno dell’indirizzo Tecnico Commerciale, e invece sono del secondo anno del Liceo Digitale.
Ok, è il momento di improvvisare, come capita spesso anche nell’uno a uno: inizio con un bel giro di nomi, facciamo un po’ conoscenza, gli chiedo di dirmi anche che rapporto hanno con la matematica (disastroso, a sentir loro), poi li spiazzo facendoli alzare per fare qualche partita a Chopsticks (un gioco che si fa con le dita e che richiede strategia e calcolo). Rotto il ghiaccio con un po’ di divertimento (e matematica), ci spostiamo su argomenti più scolastici: gli chiedo che argomenti stanno facendo e iniziamo a vedere qualcosa sulle espressioni con i radicali. E la prima giornata è andata.
Bene, ora devo riorganizzare tutto il programma che mi ero fatto su frazioni, potenze, monomi e polinomi: stanno facendo il secondo anno, non il primo. I tempi sono stretti, ma riesco a tirare fuori qualcosa: domani sarò più preparato. Posso ripartire dalle disequazioni, proseguire con l’algebra, virare ogni tanto sulla geometria per non stancare l’uditorio, e coprire tutto il programma che “devono recuperare”. Risolveranno ogni difficoltà con il programma che ho preparato.
Certo, come no. Il secondo giorno parto con la mia bella lezioncina, ed è già tanto che qualcuno mi presti un minimo di ascolto, tra una chiacchiera, un lancio di aeroplanini, un messaggio su whatsapp. Ok, è il momento di cambiare strategia di nuovo: torniamo a giocare, questa volta a Tokio (un gioco di dadi). Anche questa volta, le barriere tra me e loro iniziano ad allentarsi, iniziano a capire che sono lì per loro e che, così come possiamo divertirci insieme giocando coi numeri, allo stesso modo possiamo affrontare insieme questo corso, e soprattutto la matematica che tanto li spaventa.
E così anche loro cominciano a fidarsi sempre di più, capiscono che se hanno dubbi possono farmi domande senza problemi, capiscono anche che non si sentiranno giudicati per i loro errori.
Io mi rendo conto che la loro agitazione e paura per la matematica diminuisce mano a mano che costruiamo una fiducia reciproca: cerco quindi di coinvolgerli sempre di più. Gli incontri diventano sempre più induttivi: smontiamo e ricostruiamo tutti gli argomenti del “recupero”, arriviamo alle formalizzazione necessarie in matematica ma costruendo da soli i vari “mostri matematici” in una forma comprensibile e intuitiva. Come quando abbiamo affrontato equazioni e disequazioni fratte, e abbiamo capito insieme la necessità di introdurre delle condizioni di esistenza per il denominatore, risalendo fino alle elementari e alla prova delle divisioni per capirlo appieno.
La creazione reciproca di questo clima più disteso e rilassato, oltre a togliere un po’ di agitazione a me, ha fatto sì che si sentissero liberi di chiedere, di parlare, di esprimere i loro dubbi e perplessità. In questo, l’inserimento di una componente ludico-didattica è stato fondamentale: ha permesso di farli giocare, usando competenze legate alla matematica, al ragionamento logico e all’espressione verbale matematica, ma ridendo e sfidandosi a suon di dadi, carte, giochi di società, partite a Taboo a tema…
Piano piano anche lo scopo stesso del tempo che stavamo passando insieme è parzialmente cambiato: più che un corso di recupero è diventato un tentativo di fare pace con la matematica, di capire che questa materia astrusa non è così fuori dalla loro portata come pensavano, anzi può diventare comprensibile e addirittura divertente, tanto che ci si può anche giocare.
Ovviamente, la fiducia va costruita: in caso di dubbi ed errori, per prima cosa li spronavo a cercare autonomamente una soluzione, offrendo eventualmente qualche indizio o traccia da seguire. E spesso la soluzione è arrivata da altri compagni, con un lavoro tra pari che porta ad aiutarsi a vicenda nella risoluzione di esercizi e nel darsi consigli, senza cercare di prevalere sul compagno o di metterlo “in ridicolo”.
E il far pace con la materia non può che abbinarsi a un altro obiettivo: recuperare la motivazione e rafforzare l’autostima. Non riuscire a risolvere una parte di un esercizio non vuol dire essere stupidi o non essere portati per la matematica. Soprattutto, se si considera tutta la parte di esercizio che invece è stata svolta: quando uno studente ci fa caso, poi si sente anche più motivato a cercare di risolvere un eventuale errore, a concentrarsi su una difficoltà.
Nel corso dell’ultima lezione di questo (purtroppo) breve corso, insieme a un educatore-coadiuvatore che ci ha accompagnati in questa esperienza, abbiamo deciso di chiudere proponendo un momento di dialogo e discussione, in cui i ragazzi hanno potuto esprimere liberamente le loro opinioni su quanto fatto insieme. E questo è stato il momento più alto dell’esperienza comune: hanno detto che finalmente erano riusciti a capire varie “cose matematiche” apparentemente spaventose e incomprensibili fatte assieme, che con una buona dose di motivazione si erano accorti di essere effettivamente “bravi” e in grado di farle, che anche i “momenti di gioco” erano funzionali a farli ragionare e usare la logica… che anche un mostro come la matematica, insomma, poteva essere alla loro portata.